Energy Efficiency Report – seconda edizione

L’efficienza energetica nei processi industriali: tecnologie, potenzialità e normativa

La seconda edizione dell’Energy Efficiency Report affronta il tema – indubbiamente più “complesso” di quello oggetto del Rapporto dello scorso anno – dell’efficienza energetica nei processi industriali. Più complesso perché sono diverse e più trasversali (dai motori agli inverter fino agli impianti di cogenerazione) le tecnologie alla base degli interventi di efficientamento, perché più articolato è il sistema delle imprese nel nostro Paese, caratterizzato come noto da una forte presenza di PMI, e perché più numerosi sono gli attori in gioco (fornitori di tecnologie, ESCo, energy manager, EGE, …); ma allo stesso tempo anche un indispensabile completamento dell’analisi condotta dall’Energy & Strategy Group in merito alle potenzialità che il nostro Paese ha con riferimento all’efficientamento energetico.
Un’analisi che appare in questo momento ancora più di attualità se si considera che la Strategia Energetica Nazionale recentemente predisposta dal Governo– e attualmente sottoposta a consultazione pubblica – pone l’efficienza energetica al primo posto fra le priorità di intervento, accreditandole circa 60 (33%) dei 180 miliardi di investimenti complessivi e 8 (57%) dei 14 miliari di risparmio da conseguire sulla “bolletta energetica” dell’Italia da qui al 2020.

Il punto di partenza del lavoro– come ormai dovrebbe essere familiare al lettore – è la ricognizione dello stato dell’arte della tecnologia e la sua “interpretazione” economica. Per ognuna delle possibili soluzioni di efficientamento energetico – inteso nell’accezione sia di riduzione dei consumi energetici che di riduzione, attraverso la produzione in loco, della dipendenza dall’approvvigionamento di energia elettrica o del combustibile impiegato per gli usi termici – si è calcolato il costo medio necessario per risparmiare (o produrre) un singolo kWh elettrico o termico considerando l’intera vita utile di ciascuna tecnologia e lo si è comparato con il costo evitato dell’approvvigionamento da fonti tradizionali. Queste valutazioni economiche sono state condotte, inoltre, considerando sia il caso di sostituzione “obbligata” a fine vita della tecnologia precedentemente adottata con una più efficiente – e quindi per la quale l’investimento da considerarsi è solo quello “differenziale” per avere a disposizione una tecnologia più efficiente – sia il caso di sostituzione “volontaria” di una tecnologia ancora funzionante. Così facendo, la nostra analisi ci ha permesso di simulare due momenti decisionali differenti, ma ugualmente importanti per la diffusione delle soluzioni di efficienza energetica in ambito industriale. Da un lato, il caso in cui si vuole capire se conviene intervenire per migliorare le prestazioni energetiche di una soluzione esistente e funzionante, dall’altro quello in cui si desidera comprendere se orientarsi, in sede di sostituzione a fine vita di una soluzione, verso un’analoga tecnologia tradizionale (normalmente meno costosa), piuttosto che verso una soluzione più efficiente, ma che comporta un investimento maggiore.

Il quadro che ne esce – rimandando al testo integrale del Rapporto per gli indispensabili dettagli – è decisamente interessante. Se si guarda alla convenienza “assoluta”, ovvero alla differenza fra il costo del kWh risparmiato con un intervento di efficientamento e quello di acquisto dello stesso kWh da fonte tradizionale, quasi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico (inverter, rifasamento dei carichi elettrici ed interventi sul sistema ad aria compressa, UPS ad alta efficienza, tecnologie di accumulo nel sistema ad aria compressa, sistemi per il controllo dinamico della pressione in un impianto di refrigerazione, cogenerazione con turbina a gas o motore a combustione interna, sistemi efficienti di combustione) appaiono essere economicamente sostenibili, in tutte le situazioni e anche in assenza di sistemi di incentivazione. Solo i motori elettrici ad alta efficienza ed i sistemi ORC paiono mostrare ancora qualche problema di sostenibilità, ma con un trend di riduzione dei costi della tecnologia che lascia indubbiamente ben sperare per il futuro anche prossimo di queste applicazioni. Il tempo di rientro dell’investimento, tuttavia, appare essere ancora in media piuttosto elevato – tra 3 e 7 anni – se comparato con le soglie massime di “accettabilità” tipicamente fissate dalle imprese per questo tipo di investimenti, forse un po’ troppo prudentemente definite nell’attorno di 2 o 3 anni.

Un quadro che – con l’unico “neo” (si vedrà poi quanto rilevante) del tempo di rientro dell’investimento – sembra quindi particolarmente “positivo” e che potrebbe trarre giovamento dalla particolare situazione di “arretratezza” del sistema industriale del nostro Paese in tema di efficientamento energetico.

L’industria ha un peso comunque importante, anche se in decrescita negli ultimi anni per effetto della sfavorevole congiuntura economica, sui consumi energetici finali nazionali. In particolare, il peso è passato dal 28% del 2005 (cui corrispondeva un consumo di 41 Mtep, su un totale di 145,2 Mtep) al 23% nel 2010 (corrispondente ad un consumo di 32 Mtep, su un totale di 137,5 Mtep). Se si utilizza come indicatore di efficienza il rapporto tra consumi energetici e produzione nei diversi settori industriali – in particolare nell’alimentare, cartario, chimico, metallurgico, tessile, vetrario, meccanico e dei prodotti dell’edilizia, su cui si è concentrato il Rapporto e che comunque sono altamente rappresentativi del totale dei consumi energetici industriali in Italia – la nostra analisi rileva come, soprattutto negli ultimi anni, la maggior parte dei settori (metallurgia, vetreria, meccanica e prodotti per l’edilizia, ovvero pari a circa il 60% del totale dei consumi) abbia peggiorato il proprio livello di efficienza energetica, ossia registrato una contrazione dei consumi energetici meno che proporzionale rispetto al calo (legato inevitabilmente alla crisi economica) della produzione. Se a ciò si aggiunge che in tre settori sui quattro citati sopra, l’incidenza della spesa energetica – come risulta dalle nostre analisi estensive dei bilanci aziendali – è misurabile oggi in più di 6 punti percentuali rispetto al fatturato, ci si rende conto di quanto spazio ci sia per interventi di efficientamento. Sommando i risparmi elettrici “teorici” conseguibili a seguito dell’adozione delle sopraccitate tecnologie(comprensivi anche della produzione da fonti rinnovabili), la riduzione potenziale dei consumi energetici da qui al 2020 è pari a 64 TWh, ossia quasi la metà del fabbisogno attuale ascrivibile al settore industriale.

Rispetto al potenziale teorico, l’obiettivo che il nostro studio ritiene invece sia plausibile raggiungere in Italia da qui al 2020 è nell’ordine di 16 TWh, ossia soltanto un quarto di quanto teoricamente a disposizione.

Le ragioni sono fondamentalmente due ed ovviamente interrelate fra loro: (i) il quadro normativo che nel nostro Paese sconta un “ritardo” significativo rispetto ad esempio al benchmark europeo; (ii) una vera “cultura” dell’efficienza energetica – negli operatori industriali, ma anche nelle banche e negli istituti di credito – ancora assai poco diffusa.

L’11 settembre del 2012 si è chiuso l’iter legislativo relativo all’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento Europeo della “nuova” Direttiva europea in materia di efficienza energetica, destinata a sostituire l’ormai famosa – e relativamente recente – Direttiva 2006/32/CE. La “nuova” Direttivaesplicitamente riconoscendo il ruolo “strategico” dell’efficientamento nei settori industriali per il raggiungimento degli obiettivi europei ed allo stesso tempo prendendo atto delle maggiori difficoltà (entità dell’investimento, ottica di lungo termine dei ritorni ad esso associati, errata percezione da parte degli operatori industriali dell’efficienza energetica come obiettivo “marginale” nel proprio business) che questo incontra – prevede misure specifiche per l’efficientamento energetico nell’industria, imponendo alle grandi imprese di sottoporsi ad audit energetici almeno ogni quattro anni e “incoraggiando” a fare lo stesso anche per le PMI. Si prevede poi un “sistema informativo” che possa coinvolgere tutti gli attori del processo: (i) elenchi pubblici (o sistemi analoghi di informazione e trasparenza) di fornitori di servizi energetici “qualificati”, secondo regimi di certificazione e/o accreditamento e/o regimi equivalenti di qualificazione, che dovrebbero entrare in vigore auspicabilmente entro l’1 gennaio 2015; (ii) diffusione di informazioni alle banche e alle altre istituzioni finanziarie sugli strumenti di finanziamento delle misure di miglioramento dell’efficienza energetica; (iii) creazione di un meccanismo indipendente per garantire il trattamento efficiente dei reclami e la risoluzione stragiudiziale delle controversie nate in relazione a contratti relativi ai servizi energetici.
Tra il 2009 e il 2011 il sistema delle norme ISO e UNI ha fatto passi in avanti estremamente significativi, definendo – con la ISO 50001 del 2011, la UNI CEI 11352:2010 e la UNI CEI 11339:2009 – i requisiti cui dovrebbero sottostare tre attori fondamentali della filiera dell’efficienza, soprattutto in ambito industriale, ovvero le imprese “utilizzatrici di energia”, le ESCo ed i professionisti nella “gestione dell’energia” (EGE).

Nel frattempo però in Italia il recepimento della già citata Direttiva 32/2006/CE sull’efficienza energetica è avvenuto con due anni di ritardo con il D.lgs. 115/08 ed in una “versione” depotenziata, senza meccanismi di qualificazione prescrittivi e con il fondo rotativo di finanziamento degli interventi(Fondo Rotativo “Kyoto” previsto dalla Finanziaria 2007) che è divenuto effettivamente operativo solo nel 2012. Solo un “manipolo” di operatori industriali si è certificato ISO 50001, seguiti da 27 ESCo (l’1,4% del totale di quelle iscritte all’AEEG) certificate UNI CEI 11352:2010 e 30 (!) professionisti in “gestione dell’energia”.
Anche sul fronte dei TEE – dove pure non sono mancati segnali positivi legati alla riduzione della soglia minima per la presentazione dei progetti e la introduzione, più volte chiesta a gran voce dal mercato, del coefficiente di durabilità “τ”che tiene conto della vita tecnica attesa degli interventi – rimane come una “spada di Damocle” sui progetti di investimento in corso di valutazione l’incertezza sul futuro del meccanismo a partire dal 1 gennaio 2013. Qualche speranza giunge in questo senso dalla Strategia Energetuca Nazionale che ribadisce il ruolo e limportanza dei TEE, ma che è purtroppo ancora lontana dall’essere tradotta in misure operative.
E pensare che basterebbe concentrare gli sforzi sulle tecnologie a maggior potenziale per ottenere risultati molto significativi. Se si riuscisse ad esempio ad incrementare del 10% – con un sistema di stimoli ad hoc e proporzionato alla rilevanza della tecnologia – il grado di penetrazione sul mercato dei sistemi di cogenerazione si potrebbero risparmiare ulteriori 2 TWh, +12,5% rispetto alle nostre previsioni (a condizioni “fissate”) per il 2020.

Altro presupposto indispensabile affinché il potenziale di mercato si trasformi in reali investimenti in efficientamento energetico da parte delle imprese è che si diffonda all’interno del sistema industriale del nostro Paese la “cultura” – intesa come consapevolezza del problema della gestione dell’energia e conoscenza degli strumenti più idonei ad affrontarlo – dell’efficienza energetica.
Il quadro che esce dalla nostra indagine – che ha coinvolto oltre 100 imprese, fra PMI e grandi operatori, sia in settori energivori che non – con riferimento a questo tema è invece piuttosto desolante.
Poco meno del 17% delle imprese– se si escludono ovviamente quelle obbligate dalla Legge 10/91 perché aventi consumi annui superiori ai 10.000 TEP – dispone di un energy manager.
Solo il 22% delle imprese adotta un approccio strutturato alla “gestione dell’energia”, contro un 69% di operatori che adotta invece ancora oggi approcci piuttosto “rudimentali” di misura e controllo dei consumi energetici, e quasi il 15% che addirittura non ha attivato nemmeno questi.
Nel 90% dei casi il driver decisionale primario che ha guidato gli investimenti di efficientamento energetico è legato all’obsolescenza o all’efficientamento produttivo, ossia non ha quasi nulla a che vedere con la ricerca specifica di un risparmio nei consumi e/o nei costi energetici. E’ evidente, infatti, che se si sostituisce un impianto ormai completamente “ammortizzato”, magari acquistato oltre dieci anni fa, con un nuovo impianto si ottiene anche un risparmio energetico, perché nel frattempo il progresso tecnologico associato a questo tipo di impianti ne ha comunque incrementato l’efficienza e quindi (a parità di output) ne ha ridotto i consumi. Di contro, solo nel 10% dei casi la riduzione dei consumi energetici, ossia l’essenza stessa dell’efficientamento, è stata il driver primario di scelta.
Nel 71% dei casi i progetti di investimento si sono scontrati con “barriere” di natura economicae più precisamente con tempi di ritorno giudicati inizialmente troppo lunghi(anche a causa dell’incertezza normativa che contraddistingue il settore), cui si sono affiancati nel 40% dei casi anche problemi legati al reperimento delle risorse finanziarie necessarie. Gli operatori qui “puntano il dito” in particolare contro le banche italiane, che al momento si rivelano essere piuttosto riluttanti rispetto al finanziamento degli interventi di efficienza energetica, sia quando essi sono direttamente realizzati dalle imprese sia quando lo sono in “cordata” con le ESCo. Il problema non è di facile soluzione, tuttavia, in quanto – se ci si mette nella prospettiva del finanziatore – il rischio relativo ad esempio al perdurare dei meccanismi di incentivazione si abbatte sulla capacità di costruire piano di rientro sufficientemente “garantiti”.

Solo due fattori paiono addolcire un poco il quadro: il 64% delle imprese del campione conosce le ESCo ed ha valutato o sta valutando l’opportunità di usufruire dei loro servizi, anche se ancora il 40% di queste imprese indica come unica funzione della ESCo l’espletamento dell’iter burocratico di ottenimento dei TEE(e la eventuale successiva gestione), mentre solo il restante 24% le reputa un interlocutore potenzialmente interessante per competenze tecniche e capacità finanziarie al fine di realizzare interventi di efficienza energetica; lo “sblocco” del Fondo Centrale di Garanzia per le PMI agli interventi di efficienza energetica può permettere di incrementare, per lo meno sulla carta, il merito di credito delle ESCo italiane nei confronti delle banche.

Non è chiaro – e si lascia qui al lettore di interpretare i dati contenuti nel Rapporto – se questi fattori, assieme all’enfasi, da cui si è partiti in questo summary, che all’efficienza energetica viene data nella Strategia Energetica Nazionale, possano rappresentare i primi segnali di una “inversione di rotta” in positivo del nostro Paese, oppure siano l’ennesimo esempio di “distonia” del quadro complessivo di cui abbiamo dato ampie prove nel passato recente un po’ su tutti i pillar del Pacchetto 20-20-20.

Il Rapporto Energy Efficiency Report sarà presentato in un convegno a Milano il prossimo 21 novembre alle ore 9.30
Politecnico di Milano – Aula Carlo De’ Carli

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