Principio dell’energia: le costruzioni devono ridurre sempre di più il proprio consumo di energie. Parte I: le strategie passive

Le costruzioni possono, e quindi hanno il dovere, di diventare produttori d’energia

Il 16 dicembre 2002 il Parlamento Europeo (indotto da esigenze connesse con la tutela dell’ambiente) ha emanato la direttiva 2002/91/CE sul risparmio energetico, imponendo a tutti gli Stati membri di emettere le relative leggi nazionali e i regolamenti applicativi, in modo da renderla operativa entro il successivo 2005.
Questa direttiva ha introdotto il concetto di “efficienza energetica” degli edifici, rapportata a tutti i tipi di consumo energetico (per climatizzare, per produrre acqua calda, per illuminare, per far funzionare elettrodomestici), istituendo il nuovo parametro di “consumo energetico dell’edificio”, misurato in chilowattora per anno per metro quadrato di superficie utile [kWh/m2/anno].
Questa unità di misura, di facile e immediata comprensione, avrebbe da allora consentito il confronto tra i consumi di edifici diversi, assurgendo, nell’opinione comune, alla funzione di parametro di valutazione della effettiva “virtù” di un edificio (in termini di risparmio energetico).
La direttiva prevedeva altresì che i governi nazionali indicassero per legge il limite massimo di consumo energetico accettabile per edifici nuovi o ristrutturati e che questo limite fosse rivisto (al ribasso) dopo un certo numero di anni.
L’opportunità di tale provvedimento è scontata, se si considera che il 31% dell’energia elettrica e il 44% dell’energia termica (combustibili) vengono (almeno nel nostro paese) utilizzati in ambito residenziale e terziario.

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Molteplici risultano, ovviamente, le voci di spesa energetica proprie di un edificio, ma le maggiori risorse risultano assorbite dalla climatizzazione degli ambienti interni (riscaldamento invernale e raffrescamento estivo); le aliquote rappresentate dall’alimentazione degli elettrodomestici o apparati elettrici ed elettronici o dall’illuminazione non sono comunque trascurabili, ma le proporzioni restano fortemente sbilanciate: sul 100% di energia finale consumato in casa, ad esempio, soltanto l’1% serve all’illuminazione, il 2,5% per cucinare, usare la lavatrice e lavastoviglie, il 3% per gli elettrodomestici frigorifero e congelatore, il 4,5% per l’uso di apparecchiature elettriche varie, l’11% per il rifornimento di acqua calda e il 78% per il riscaldamento; se poi l’unità immobiliare o l’edificio sono dotati di un impianto di raffrescamento estivo, il consumo energetico destinato al condizionamento ambiente si accresce di un ulteriore 25%.

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Per inquadrare la situazione italiana è sufficiente un confronto con i dati relativi ai consumi energetici degli edifici in altri paesi europei: attualmente nel nostro paese il fabbisogno energetico degli edifici è quantificabile mediamente in 160-200 kWh/m2/anno; in Svezia tale parametro non può essere superiore a 60 kWh/m2/anno, mentre in Germania il suo valore medio è di 80-90 kWh/m2/anno (nonostante, in entrambi i casi, condizioni climatiche invernali notevolmente più rigide di quelle italiane).
Nell’ipotesi in cui l’Italia si allineasse agli standard svedesi, il riscaldamento degli ambienti nel nostro paese scenderebbe dal 30 al 4% degli attuali consumi energetici, mentre l’adozione degli standard tedeschi porterebbe a una riduzione al 12%.
È altrettanto doveroso rilevare che i “costi” energetici in questione si ripercuotono a diversa scala: in termini di sostenibilità ambientale a livello globale, ma anche in termini di bilancio famigliare, dal momento che le spese vive di conduzione di case e alloggi sarebbero le prime a beneficiare di un’efficienza energetica edilizia competitiva con quella di altri paesi europei. Del resto, se si analizzano i dati a volte resi disponibili dalle Amministrazioni riguardo ai consumi energetici di edifici pubblici quali scuole, ospedali, sedi di istituzioni, si intuisce che la diminuzione cospicua delle spese di conduzione degli immobili, conseguente ad interventi di riqualificazione energetica, potrebbe realmente diventare una fonte di “ossigenazione” per bilanci spesso poco brillanti.
E tutto ciò senza nemmeno considerare l’opzione, oggi comunque realistica, di edifici non solo non più “energivori”, ma persino “produttori” di energia.
Migliorare la situazione è, in ogni caso, ovviamente possibile anche se, a parere dello scrivente, oltre all’inevitabile intervento “pratico”, servirà nel nostro paese il tempo necessario per un’effettiva maturazione della consapevolezza di quanto, per qualsiasi acquirente, “sarà lecito pretendere” dal costruttore/venditore della propria casa.
Si resta spesso sbalorditi dalla considerazione di quanto tempo si spenda, prima dell’acquisto di un’automobile, sulla comparazione dei consumi e delle prestazioni dei vari modelli, quando al momento dell’acquisto della propria abitazione non ci si preoccupa nemmeno di conoscere a quale prezzo ci proteggeremo dal freddo invernale, o quanto caldo dovremo sopportare in estate.

Consola, in questo quadro dai toni ancora grigi, la molteplicità di “fronti d’intervento disponibili” per procedere con un’effettiva riqualificazione del costruito o con la creazione di una nuova generazione d’edifici “performanti”.
Ciò premesso, scopo di quest’articolo attinente al “principio dell’energia”, sicuramente il più complesso e articolato, è quello di illustrare una carrellata degli attuali temi strategici d’intervento, individuando nuove strade percorribili, anche sulla scorta di possibili scenari futuri che si stanno prospettando nel mondo dell’edilizia.
Si tratterà, in questa I parte, di strategie “passive”, in altre parole mirate al risparmio e accumulo energetico, così come di quelle “attive” (trattate in un successivo Approfondimento), protese alla produzione energetica (si definiscono invece “ibride” quelle che cercano di fondare i principi delle due precedenti). 

STRATEGIE PASSIVE
La comune accezione di “fabbisogno energetico di un edificio” si limita, al momento e soprattutto entro i confini del nostro paese, alla valutazione del “consumo” globale di conduzione, quasi ad una sorta di bilancio, in termini di spesa energetica, tra le “uscite” necessarie per garantire funzionalità e comfort alle nostre case e le “entrate” (peraltro ancora minime) caratterizzate dagli apporti energetici (attivi o passivi) che sfruttano fonti naturali. È opinione, purtroppo spesso condivisa, che l’efficienza energetica non possa prescindere dalla tecnologia di cui disponiamo ai giorni nostri, quasi come se solo impianti ad elevata efficienza (soprattutto generatori di calore), o innovativi sistemi d’approvigionamento energetico da fonti “alternative” (fotovoltaico, solare termico, geotermia) fossero in grado di rendere “performante” un edificio.
In realtà il fabbisogno energetico complessivo è sempre originato dalla combinazione di due fattori fondamentali: uno connesso alla richiesta d’energia, l’altro alla dotazione impiantistica e alle prestazioni tecnologiche.
Confidando nella licenza d’uso da parte dell’ignoto autore, ci serviamo dell’ormai nota metafora “del riempimento del secchio bucato”, per proporre quanto più efficace possa essere un intervento mirato alla riduzione di sprechi e dispersioni (occlusione dei fori nel secchio), piuttosto che il ricorso a nuove risorse (aumentare la portata d’acqua o migliorare l’efficienza del rubinetto).

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Il primo passo verso il contenimento energetico, quindi, consiste nella realizzazione di involucri ad elevate prestazioni sia sotto il profilo dell’isolamento che della tenuta.

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Sarebbe estremamente miope concepire la necessità di isolare un edificio solo in funzione delle basse temperature invernali (almeno alle nostre latitudini); sempre più diffusa si sta rilevando, infatti, la legittima insofferenza alle calure estive che ormai da qualche stagione ha indotto “alla corsa” agli ormai comunissimi impianti di condizionamento (il cui consumo energetico è ormai quasi superiore a quello degli impianti per la climatizzazione invernale).

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Un involucro efficiente deve, pertanto, essere in grado di “proteggere” gli ambienti interni tanto dal freddo quanto dal caldo.
Riconoscere i “buoni dai cattivi” (o gli adatti dai non idonei), nell’ambito della scelta dei materiali costituenti la stratigrafia dell’involucro di un edificio non è complesso: i parametri fisici necessari sono pochi e di facile comprensione.
Le prestazioni di un materiale isolante (relativamente al periodo invernale) sono tanto migliori quanto più ridotta risulta la sua conduttività termica λ ovverosia la sua predisposizione a farsi attraversare dal calore; in altre parole tanto minore risulta λ tanto maggiore sarà la tendenza di una eventuale parete a “non disperdere” il calore interno verso l’esterno dell’edificio. Nel caso di pareti composte da una stratigrafia, ogni materiale componente concorre con la propria λ (conduttività) ed il proprio spessore a definire la “trasmittanza” “U” propria della parete. Anche questo parametro, analogamente alla conduttività per un singolo materiale, esprime “la tendenza” di un elemento costruttivo stratificato a farsi attraversare dal calore ed è estremamente significativo per giudicarne l’efficienza in termini, appunto, di isolamento invernale (tanto migliore quanto più U risulterà contenuta). Conferma dell’importanza di tale parametro, deriva dalla considerazione che una delle strategie d’applicazione della direttiva 2002/91/CE da parte della normativa italiana si basa proprio sull’istituzione di valori massimi ammissibili alla U dei vari componenti dell’involucro, siano essi opachi o trasparenti.

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D’estate, però, le condizioni cambiano e i parametri che rendono performante un involucro diventano altri, quali ad esempio lo “sfasamento” “d” ed il fattore d’attenuazione “fa”. Come facilmente interpretabile, il primo fa riferimento al ritardo con cui l’onda termica (caldo esterno) oltrepassa la parete dell’edificio “entrando nello spazio abitato”, il secondo all’attenuazione con cui la medesima onda viene percepita all’interno.

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Ovviamente le prestazioni di un pacchetto murario saranno tanto migliori quanto maggiori saranno lo sfasamento e lo smorzamento dell’ampiezza dell’onda (ideale è che l’onda termica penetri all’interno dell’edificio con un ritardo di almeno 8-10 ore, quindi nelle ore notturne, quando magari i locali sono ventilati naturalmente con l’aria fresca notturna).
Se, da un lato, si ritiene fuori luogo citare in questa sede altre grandezze più complesse, che diventano allo stesso tempo indici significativi dell’efficienza sia nel periodo invernale che in quello estivo (quali ad esempio la trasmittanza periodica), è indispensabile completare questo rapido quadro “informativo” con l’introduzione di un ultimo concetto “protagonista”: l’inerzia termica “IT”. Questa grandezza di complessa determinazione, strettamente legata alla massa della parete, è indice della capacità della stessa di contenere le oscillazioni termiche.
In sostanza una parete dotata di buona (elevata) IT, d’inverno “conserva” a lungo il calore accumulato e d’estate riduce le oscillazioni termiche della parete. Ma l’IT entra in un ulteriore parametro complesso, detto Cip (capacità termica areica periodica) che sancisce il contributo della parete a rendere sia in estate che in inverno la temperatura operante (quella che percepiamo) più vicina ai valori di comfort per il corpo umano.
In altre parole, un’alta inerzia termica (Cip elevata) significa avere delle pareti che si raffreddano più lentamente d’inverno (ad esempio durante le ore notturne di spegnimento dell’impianto) e, soprattutto, pareti che si scaldano meno a seguito dei carichi interni d’estate (persone, macchine, carichi da radiazione solare diffusa attraverso le finestre) a tutela del comfort interno degli ambienti abitati.
Definiti questi quattro parametri, trasmittanza “U”, sfasamento “d”, fattore d’attenuazione “fa”, inerzia termica “IT”, diventa possibile intuire il numero di possibilità di scelte costruttive a disposizione; ciò che farà poi propendere un progettista per una piuttosto che per un’altra delle possibili soluzioni, sarà la considerazione delle “specificità” del singolo progetto.
Un involucro non è costituito da sole pareti opache, anzi, il condivisibile apprezzamento sempre più diffuso del daylighting spinge sempre più spesso alla realizzazione di “facciate” con ampie aperture vetrate. Le ormai ottime capacità prestazionali dei serramenti (telaio e vetrocamera sono caratterizzati da elevati livelli di isolamento termico, così come il cassonetto dell’avvolgibile o altro sistema di oscuramento) stanno trasformando la “tradizionale finestra” da originario “elemento disperdente” a strumento utile per la captazione di energia solare e di luce, in particolare nelle stagioni invernali.
Il semplice studio delle mappe solari (di bioclimatica di parlerà in seguito) fornisce indicazioni “ineccepibili” sulle tipologie di sistemi più efficaci di captazione o di schermatura nei periodi in cui guadagni termici passivi da radiazione solare risulterebbero sconvenienti.
Un ultimo cenno merita il riferimento all’importanza della “tenuta” dell’involucro edilizio riportato in apertura del paragrafo. Senza mirare all'”integralismo” d’oltralpe, che spesso aspira alla realizzazione di edifici “sottovuoto” e dando per scontato che la qualità della serramentisca odierna ha scongiurato i rischi di infiltrazioni da porte, finestre e cassonetti, si riconosce che i ricambi d’aria “casuali” e mal gestiti (basta pensare a certi edifici pubblici, quali ad esempio le scuole) possono compromettere i benefici dell’involucro più performante.
Questo è il caso in cui la tecnologia (con impianti di ventilazione meccanica dotati di recuperatori di calore) può completare risultati conseguiti con oculate scelte costruttive, consentendo con l’applicazione di una “strategia ibrida” il conseguimento di ottime prestazioni in termini di risparmio energetico e comfort ambientale.
Completata questa prima analisi, volta ad evidenziare l’importanza del contributo dell’involucro all’efficienza prestazionale di un edificio (come prima strategia passiva), si sottolinea che volutamente ci si è limitati a trattare di materiali più o meno efficienti, eludendo considerazioni legate alla “natura” degli stessi (provenienza naturale, sintetica……).
Questo argomento, infatti, che rientrerà tra i temi trattati nell’analisi del “secondo principio”, costituisce il presupposto per introdurre temi di scala ben più ampia di quella del singolo edificio, coinvolgendo concetti quali l’energia grigia o intrinseca, la biocompatibilità e l’ecosostenibiltà.

Principio dell’energia: strategie passive
Tra le strategie passive, la realizzazione di un involucro efficiente (trattata in precedenza) è senza dubbio la più conosciuta e praticata, ma al momento della scelta della stratigrafia dell’involucro, le “basi” dell’efficienza energetica di un edificio possono essere già state “fondate”.
Numerose sono, infatti, le scelte contemporanee alla genesi di un progetto che possono costituire dei presupposti validi per prestazioni eccellenti.
Primo fra tutti il contenimento del cosiddetto rapporto S/V, pari al quoziente tra la superficie di un edificio a contatto con l’esterno (quindi quella disperdente) ed il volume riscaldato dello stesso. Tale indice, che diminuisce all’aumentare della compattezza dell’edificio, è un primo parametro della “propensione a disperdere”, esclusivamente dipendente dalla “forma” geometrica di una costruzione. Edifici a pianta regolare, con forme tendenzialmente assimilabili a parallelepipedi, privi di sporti estesi, a parità di tipologia di involucro, saranno meno disperdenti di altri dalla morfologia più articolata.

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Dato che però, ovviamente, spesso è necessario rispettare particolari esigenze formali che escludono volumi compatti, restano in ogni caso le “potenzialità” della bioclimatica che, applicata alle costruzioni, ottimizza le relazioni energetiche tra l’edificio e l’ambiente naturale circostante.
L’architettura bioclimatica si occupa dello studio delle soluzioni tipologiche e delle prestazioni che rispondono alle caratteristiche ambientali e climatiche del sito, consentendo di raggiungere condizioni di benessere all’interno degli edifici. Tendendo a un razionale sfruttamento degli apporti energetici dell’ambiente esterno (gratuiti), l’edificio bioclimatico ha come obiettivo la riduzione – o addirittura l’azzeramento nei casi più virtuosi – del fabbisogno energetico necessario per la climatizzazione, attingendo quanto eventualmente necessario dallo sfruttamento di energie “rinnovabili” (riducendo al minimo l’apporto degli impianti alimentati con fonti energetiche di natura fossile).
Per il periodo invernale sono fondamentali i “guadagni” termici derivanti dall’irraggiamento solare e dall’aria contenuta negli ambienti. Fattore essenziale per un riscaldamento passivo è, pertanto, l’esposizione massima alla radiazione solare e quindi la disposizione del fronte più ampio dell’edificio (almeno nel nostro emisfero) verso Sud.
La presenza di pareti vetrate così esposte, grazie al comportamento selettivo, rispetto alla radiazione solare, proprio del vetro, consente di intrappolare all’interno dell’ambiente la radiazione termica dei raggi solari (effetto serra).
Tale principio può essere ottimizzato ricorrendo alla realizzazione di vere e proprie serre solari che si articolano in diverse configurazioni morfologiche e funzionali, svolgendo anche altre interessanti funzioni ambientali quando associate all’uso intensivo di vegetazione (umidificazione, filtraggio di polveri, disinquinamento).
Altro contributo di non trascurabile importanza può derivare dalla colorazione delle superfici captanti: tonalità scure (rosso, blu, marrone, ecc.) aumentano la capacità di accumulo di calore delle superfici interne, mentre tonalità chiare all’esterno aumentano l’albedo e, riflettendo la radiazione solare all’interno, aumentano il guadagno termico.
Per evitare che il calore catturato durante il giorno sia disperso durante la notte, è necessario disporre di masse termiche di accumulo per immagazzinare calore da cedere nelle ore più fredde, utilizzando pareti, solai e/o altri elementi strutturali con adeguata capacità termica.
Il cosiddetto muro di Trombe, sistema di particolare efficienza, sfrutta tutti e tre i sistemi d’accumulo prima citati, combinando gli effetti benefici (in termini di guadagno passivo) del vetro e della parete “massiva” di colore scuro

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Altrettanto importanti, per il periodo invernale, le precauzioni mirate alla riduzione delle dispersioni termiche che, dando per scontata la tenuta delle superfici dell’involucro, di cui si è già discusso, si traducono dal punto di vista delle strategie progettuali:
– nella riduzione delle superfici vetrate sul fronte a Nord;
– nella creazione di zone filtro a Nord tra gli ambienti abitati e l’esterno (cuscinetto termico);
– nell’orientamento a Nord di corridoi, spazi di servizio, magazzini, servizi igienici e spazi accessori non abitati in modo continuativo;
– nella realizzazione di muri perimetrali e coperture con intercapedini d’aria per attenuare le dispersioni termiche.
Ma i benefici dell’architettura bioclimatica non si misurano solo relativamente alle prestazioni invernali dell’edificio; ottimi risultati si possono conseguire in termini di ventilazione e raffrescamento estivo, sfruttando tecniche di espulsione del calore indesiderato verso “dissipatori” naturali di calore (aria, cielo, terra, acqua) o utilizzando metodi naturali di trasferimento del calore.
Spesso si sottovaluta l’efficacia della ventilazione naturale, che sfrutta la movimentazione (più o meno) controllata dei flussi d’aria indispensabili per ottenere il raffrescamento. I moti d’aria s’innescano sostanzialmente attraverso la differenza di pressione che si stabilisce, per effetto del vento oppure della differenza di temperatura tra aria esterna e aria interna, tra due aperture, posizionate su pareti contrapposte o su una medesima parete, ma a quote differenti.
Per attingere a tali risorse, il progetto, anche in questo caso, deve studiare le configurazioni morfologiche e funzionali più idonee ad innescare e a “pilotare” i moti d’aria “efficaci”.

Schemi dei sistemi di ventilazione naturale con sfruttamento delle brezze termiche diurne e notturne per un edificio scolastico, Paratico – lago d’Iseo (Prog. dell’Autore)
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Altri tipi di raffrescamento microclimatico per ventilazione utilizzano sistemi di scambio geotermico ad aria così da preriscaldare o raffrescare, a seconda della stagione invernale o estiva, l’aria immessa negli ambienti: condotte aerauliche interrate sfruttano il livello costante della temperatura del sottosuolo, svolgendo la funzione di scambiatori di calore geotermico; nel periodo estivo, l’aria calda circolante cede, prima di venir immessa all’interno dell’edificio o in una macchina di trattamento aria, il proprio calore per convezione alle superfici lambite che lo disperdono nel sottosuolo; in inverno l’aria di approvvigionamento dell’edificio si pre-riscalda transitando all’interno dei canali stessi.

Schema del sistema di ventilazione naturale geotermica con captazione delle brezze per un edificio di culto, Paratico – lago d’Iseo (Prog. dell’Autore).
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Tra gli altri sistemi di ventilazione naturale ad aria, si possono citare quelli basati sul principio del raffrescamento evaporativo, processo in cui l’effetto dell’evaporazione del contenuto d’acqua dell’aria è utilizzato come pozzo termico naturale: il calore sensibile dell’aria è ceduto alle molecole d’acqua sotto forma di calore latente di evaporazione.
Questa tecnica trova le proprie radici nelle regioni dell’antico Egitto e in Persia, ma anche in numerose zone dell’Italia meridionale (le note “stanze dello scirocco” in Sicilia). In pratica il sistema si basa sul metodo della “caduta d’aria”, in altre parole sull’effetto di raffreddamento prodotto da uno strato d’acqua nebulizzata nella parte alta di un vano, sulle cui chiusure laterali sono collocate una o più aperture. L’aria entrante si raffredda al passaggio attraverso lo strato d’acqua e, aumentando di densità, scende verso il basso.

Edificio Council House 2 (CH2), Melbourne, Australia, con sistema di condizionamento dell’aria naturale (Prog. Design Inc Melbourne).
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L’obiettivo di salvaguardare quanto più possibile le condizioni di comfort interno rende indispensabile, per il periodo estivo, la schermatura delle ampie aperture captanti nella stagione invernale. Un edificio bioclimatico, tra l’altro, non può prescindere dall’ottimizzazione dell’uso della componente luminosa dell’energia solare, sfruttando quanto più possibile l’illuminazione naturale a scapito di quella artificiale.

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Scontata, pertanto, risulta l’importanza dello studio delle schermature nella stagione estiva, realizzate a mezzo di frangisole, brise-soleil fissi o mobili, tendaggi esterni o alberature (a foglia caduca) in grado di impedire alla radiazione solare, ma non alla luce, di penetrare all’interno dei locali e scaldare le masse opache.

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Fondamentale, pertanto, preliminarmente a qualsiasi attività progettuale è l’analisi delle condizioni climatiche locali, che deve, però, interfacciarsi con lo studio del particolare microclima del sito: ad esempio, attraverso l’analisi delle mappe solari, è possibile definire la quantità di energia fornita dal sole in un determinato luogo della superficie terrestre, ma solo attraverso l’analisi del sito è possibile valutare la reale influenza dello stesso su un edificio.

Esempio di mappa solare con maschera delle ombre dei rilievi montuosi, per un edificio bioclimatico a Casale Corte Cerro (VB)_(Prog. dell’Autore).
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Le condizioni climatiche locali, infatti, sono soggette a variazioni in base alle particolari zone microclimatiche in cui si opera, e ciò a causa di molteplici fattori, fra i quali: – la quota sul livello del mare; – l’orografia del terreno; – le dimensioni, forma e vicinanza di masse d’acqua (laghi, mare, fiumi,….); – il tipo di suolo (colore, capacità termica, umidità; ….); – la presenza o meno di vegetazione;
– la presenza di strutture create dall’uomo (edifici, strade, aree di parcheggio, ……);
– il livello d’urbanizzazione dell’area.
Solo la correlazione di tutti i dati derivanti dall’analisi consente di definire la cosiddetta “matrice climatica del sito”, punto di partenza per il progettista.
Completata l’analisi delle strategie passive a nostro parere più efficaci e interessanti, è significativo passare in rassegna le tecnologie ormai più diffuse e sempre meno avveniristiche messe a disposizione dal mercato per la produzione “attiva” di energia da fonti rinnovabili.
 

 

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