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Abbiamo già vissuto epoche di trasformazioni rivoluzionarie, ma forse nessuna così intensa come quella che ci aspetta. Dopo la prima rivoluzione industriale (con la macchina a vapore) e la seconda (con l’elettricità), la terza rivoluzione, quella dell’energia sostenibile e diffusa, ci sta conducendo a una velocità inimmaginabile verso realtà non conosciute rispetto ad un passato che ci era abituale. Dato che il cambiamento in atto non è soltanto di grado ma di genere, è necessaria una modificazione radicale: prepariamoci a vivere in un mondo con meno risorse e meno abbondanza, fattori che porteranno inevitabili cambiamenti nei modi di vita e, di conseguenza, nel modo di pensare gli edifici e la città. Le trasformazioni in atto sono rapide, inesorabili nei numeri, devastanti per l’ambiente: ogni giorno in Italia si sottraggono circa 70 ettari di terreno vergine per infrastrutture e urbanizzazioni (pari a 8 mq/secondo)[1] secondo l’IPPC rischiamo di veder aumentare alla fine del XXI secolo la temperatura media del pianeta anche di 5 gradi[2]; anche se in calo, in parte per effetto della crisi economica, nel 2013 in Italia sono state immesse in atmosfera circa 435 milioni di tonnellate di CO2[3]. In Italia si consuma suolo principalmente per costruire infrastrutture ed edifici, che ricoprono quasi l’80% del territorio artificiale (strade asfaltate e ferrovie 28% – strade sterrate e infrastrutture di trasporto secondarie 19%), seguite dalla presenza di edifici (30%) e di parcheggi, piazzali (14%). Se gli ampliamenti urbani compatti, espressione dell’evoluzione della città degli anni 60/70, avevano come fattori determinanti le dinamiche demografiche, al contrario, la città diffusa tipica dei decenni più recenti è dovuta principalmente ad una speculazione edilizia che ha come fondamento il miglioramento delle aspettative della popolazione in termini di qualità della vita e benessere economico. Questo fenomeno ha comportato da una parte la scelta abitativa anche a distanze considerevoli dal centro urbano, con conseguente sviluppo d’infrastrutture di trasporto che consentono spostamenti quotidiani tra l’abitazione e il luogo di lavoro o di studio. Dall’altra parte ha generato nuovi fattori economici, con costi più contenuti delle unità immobiliari nelle aree periferiche e aumento dei valori immobiliari nei centri urbani, con conseguente incremento di superfici destinate alle residenze nelle aree peri-urbane. I numeri, infatti, indicano una tendenza a un consumo di suolo diffuso, meglio definito come sprawl urbano, che tende a eliminare la distinzione tra città e campagna con elevati costi sociali, economici, ambientali. La progressiva espansione delle aree urbanizzate e le sempre più diffuse dinamiche insediative dello sprawl urbano comporta una forte accelerazione del processo d’impermeabilizzazione del suolo. Questi dati confermano scientificamente per la prima volta la tendenza, di cui tutti siamo spettatori, di un’inarrestabile diffusione della città, con conseguenze importanti sulla sostenibilità della vita sulla terra. Il suolo è una risorsa, non rinnovabile. Il suolo produce cibo, contribuisce a regolare emissioni e il sequestro di gas serra, trattiene le acque piovane che sono rilasciate pian piano alimentando le falde e quindi producendo acqua potabile, è sede di almeno un terzo della biodiversità terrestre. Può il progetto urbano e architettonico continuare a lasciare queste considerazioni come fatti accessori, incapaci di caratterizzare il progetto stesso? Quando si parla di sostenibilità della città e dell’ambiente si tende correntemente a discutere dell’evoluzione delle fonti energetiche rinnovabili, dei materiali per l’isolamento termico, degli impianti tecnologici sempre più sofisticati. L’indubbia importanza di questi aspetti rischia tuttavia di celare la centralità della questione urbana, della città come insieme di edifici, che ne delimitano lo spazio e i confini. Quando si parla della questione urbana ci si dilunga spesso nella definizione degli spazi urbani, dei percorsi matrice, delle piazze e delle strade, dei limiti, dei perimetri e dei confini, del privato e del pubblico, delle barriere e delle enclaves, per aggiungere una parola straniera che “qualifica” la cultura di chi parla o scrive. Ecco allora che emerge la necessità di ricucire, di ridefinire un’urbanità frammentata e sconnessa delle città eterogenee che Vittorio Gregotti definisce “postmetropoli”. E gli edifici? Gli edifici, come accademicamente s’insegna nella maggior parte delle scuole di architettura, non appartengono al progetto urbano, bensì al progetto architettonico, dimenticando spesso che i confini della piazza o della strada sono costituiti da edifici e le caratteristiche di questi edifici concorrono in modo inequivocabile alla definizione dello spazio della città. La città contemporanea è l’unione complicata di un’imponente mole di fatti architettonici in reciproca competizione tra loro, un insieme confuso di ”incessanti novità senza necessità”[4], dove la novità diventa un valore solamente perché violazione delle regole costituite, senza apportare un contributo alla reale evoluzione dei fatti urbani. C’è da augurarsi che la crisi esistente, che è una conseguenza e non la causa dello stato delle cose, convinca a riscoprire una nuova dimensione urbana profondamente diversa da quella attuale. Partire dal ripensare gli edifici, antichi ma soprattutto recenti, ridimensionando il condizionamento finanziario-speculativo che fino ad ora ha caratterizzato l’architettura degli edifici, è certamente la strada più semplice da seguire per agire sulla modificazione urbana. S’incorre nel rischio di operare per frammenti perdendo di vista il disegno generale, ma una qualsiasi imponente modificazione urbana appartiene a oggi solamente a una visione accademica e teorica priva di ogni ricaduta concreta. Dal “cucchiaio alla città” e non viceversa. Gli edifici come banche di energia e di materie prime, come risorse invece che problemi da risolvere. Invertire il ciclo lineare che dalla materia prima conduce diritto al rifiuto per giungere a un ciclo circolare che ritorni alla materia stessa. Uso e non consumo. Uso il servizio ma non possiedo il bene. Non è questione di tecnica, ma di una nuova idea di sostenibilità del progetto. Pensare a questo cambio di paradigma significa abbandonare definitivamente il concetto che comunemente abbiamo di disciplina: una sola disciplina (progetto urbano, ingegneria urbana, energetica, economia, sociologia o anche alte che siano) non può pensare di modificare da sola lo stato delle cose. In sintesi, occorre perseguire un nuovo rapporto organico tra la città e la comunità che essa ospita, un ritrovato equilibrio con la natura e le risorse disponibili, passa attraverso una multidisciplinarietà dei saperi che rappresenta l’essenza stessa del progetto architettonico. Pensare, che, risolvendo il problema del consumo energetico di un edificio si possa risolvere il problema urbano è una sciocchezza pura e semplice: ancor peggio è pensare di conservare così com’è la città, e di conseguenza i suoi edifici. Pensare, però che, cogliendo l’occasione dell’efficienza energetica degli edifici esistenti si possa trasformare l’immagine della città rappresenta una possibilità concreta e attuabile. Il dibattito sul retrofit degli edifici deve servire a ricostruire nuovi edifici e nuove città, divenire lo strumento per cambiare l’immagine alle città, attraverso un’azione capillare partendo proprio dai pieni della città stessa. Nel 1985 con la campagna “Barcelona posa’t guapa” (Barcellona fatti bella), la città di Barcellona scelse di investire sugli spazi connettivi pubblici (anche residuali e di modeste dimensioni) come strumento per ripensare il paesaggio urbano e facilitare la riqualificazione degli edifici esistenti, in uno stato di degrado avanzato dopo gli anni della dittatura franchista. Modesti investimenti pubblici per incentivare consistenti investimenti privati. La condizione odierna in cui si trova l’Italia, con gli investimenti pubblici ridotti al lumicino, ingessata da un pericolosissimo livello di complicazione burocratica, legislativa e giudiziaria di ogni operazione che possa comportare una trasformazione della realtà, è, se possibile, più complicata di quella in cui si trovava Barcellona negli anni ottanta. Tuttavia se adottassimo lo stesso principio, partendo dai pieni invece che dai vuoti, l’amministrazione pubblica potrebbe divenire il facilitatore dell’investimento privato sugli edifici, che potranno innescare nuovi processi di trasformazione profonda della città. La città di Bolzano, con il progetto EPOurban[5], ha innescato in modo semplice e concreto un processo di riqualificazione energetica degli edifici residenziali collettivi privati che potrà avere sviluppi interessanti, aprendo la strada a ulteriori approfondimenti che inglobino anche il fatto architettonico. Se, sull’esperienza di questo progetto, adeguando gli edifici a elevatissimi standard energetici e sismici, con poche e semplici regole pensiamo anche a densificare i quartieri con innovativi parametri ambientali e di qualità della vita, a ripensare l’immagine della città rendendola espressione di un tempo futuro e non della nostalgia del passato, ecco allora che si capisce l’importanza del fatto architettonico all’interno del progetto urbano. La questione ambientale non va intesa solo come fatto tecnico ma come fattore fondamentale per la costruzione della memoria urbana e paesistica dei nostri luoghi. Nell’immediato è il punto da cui partire: ripensare gli edifici per creare nuovi luoghi. Questi luoghi sono una parte del tessuto della nostra comunità e della nostra società. Abbiamo la responsabilità di assicurarci che siano disponibili per le generazioni future non come reliquie del passato, ma come luoghi rigenerati dove vivere e andare a lavorare ogni giorno. E’ una scelta che non ha limitazioni particolari, non richiede ingenti investimenti economici ed è tecnologicamente fattibile ma manca di una regia pubblica capace di ordinare e favorire il processo. Dal punto di vista economico lo Stato dispone già di strumenti efficaci: gli incentivi per la riqualificazione e l’efficienza energetica. Le amministrazioni periferiche devono riprendersi una regia attenta dei processi e dei metodi atti a modificare l’immagine della città: una metodologia di rigenerazione sostenibile che passi per il progetto architettonico prima e per il fatto tecnico poi, rispettosa della memoria ma diretta al futuro. Lasciare la regia al mercato così com’è stato fatto negli ultimi trent’anni ha condotto allo stato attuale delle cose. Ripensare gli edifici della città rappresenta il primo passo per un cambio di paradigma sull’evoluzione della città moderna in Europa e nel mondo, fondato su energia sostenibile, comunicazioni e infrastrutture; quello che si può definire come retrofit urbano, in altre parole al modo in cui è possibile inserire, all’interno di una forma urbana esistente nuove declinazioni della città. Un sistema di trasporto integrato e sostenibile, una città policentrica con un sistema di trasporto pubblico efficiente, una città densa che non occupi altro spazio vergine e nello stesso tempo sia capace di sopportare il previsto aumento di popolazione, una citta “liquida”, interpretazione urbana della metafora di Zigmunt Bauman, flessibile alle modificazioni che inevitabilmente interverranno nel corso degli anni. Se è vero che, come sosteneva Mies van der Rohe, l’architettura è strettamente legata alle forze che governano una determinata epoca, e di conseguenza rappresenta lo specchio della società, dovremmo seriamente preoccuparci dello stato della nostra società. Progetto di rigenerazione dell’edificio B della Fondazione Mazzali a Mantova, Arch Gloria Negri & Laboratorio di Architettura (2012-2014). Conservazione e modernità: la modernità deve essere intesa come capacità critica del processo di progetto di rovesciare l’incapacità nostalgica di innovare della conservazione. L’ampliamento di un edificio degli anni ’70 diventa il momento per riqualificare energeticamente e sismicamente l’edificio, coniugando efficienza energetica e efficacia della ricomposizione architettonica. Progetto di rigenerazione del parcheggio ex-Gasometro a Reggio Emilia (2012-2013), Laboratorio di Architettura Architetti Associati. Pensare gli edifici rigenerati come banche di energia e di materie prime. Il progetto di rigenerazione di un parcheggio a Reggio Emilia diventa l’occasione per sperimentare l’accumulo dell’energia, la logistica last-mile, i servizi di car-sharing e bike-sharing, la mobilità elettrica. Concorso per la riqualificazione energetica degli edifici sociali di via Parma a Bolzano (2015)- Secondo Premio – Laboratorio di Architettura Architetti Associati. Un sistema di blocchi prefabbricati (finestra ed erker) sono la sintesi di una metodologia di recupero energetico e compositivo degli edifici sociali. Bibliografia V. Gregotti, Il possibile necessario, Milano, Bompiani, 2014 R. Krier, Lo spazio della città, Milano, Citta Studi, 1996. S. Latouche, Per un’abbondanza frugale, Torino, Bollati Boringhieri, 2012 C. Ratti, Architettura open source, Torino, Einaudi, 2014 L.de Santoli, A. Consoli, Territorio zero, Roma, Minimun fax , 2013 S. Verones, A.Rinaldi, S. Rebecchi, Retrofit e rigenerazione urbana – Il progetto EPOurban, Monfalcone, Edicom, 2014 _______________________________________ [1]Fonte ISPRA (Rapporto ISPRA 2014 sul consumo del suolo) [2] Fonte International Panel Climate Change [3] Fonte Dossier Clima 2014 – Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile [4] Cfr. V. Gregotti, Il possibile necessario, Milano, Bompiani, 2014 [5] Cfr. S. Verones, A. Rinaldi, S. Rebecchi, (a cura di), Retrofit e rigenerazione urbana-Il progetto EPOurban, Monfalcone, Edicom, 2015. Consiglia questo approfondimento ai tuoi amici Commenta questo approfondimento
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