Wind Energy Report

Il futuro dell’eolico in Italia: l’impatto del Decreto Rinnovabili e le opportunità del mini-eolico

Il Wind Energy Report, che viene presentato martedì 10 luglio al Politecnico di Milano nella sua prima edizione, costituisce per così dire il naturale completamento dell’offerta di Rapporti di Ricerca dell’Energy&Strategy Group, andando ad analizzare il business della seconda fonte rinnovabile in Italia per potenza installata dopo il fotovoltaico nel 2011 e la prima per produzione elettrica nel 2010 (in entrambe i casi ovviamente escludendo la “storica” presenza dell’idroelettrico nel nostro Paese). Anche per l’eolico – che ha avuto una crescita estremamente rilevante negli ultimi anni – abbiamo applicato il nostro consueto framework per l’interpretazione delle dinamiche di business, che consiste nell’analizzare ed il discutere le dinamiche che hanno interessato la tecnologia, la normativa ed ovviamente il mercato e la filiera industriale dell’eolico in Italia.
Nell’executive summary, tuttavia, abbiamo deciso di proporre – lasciando al lettore dell’intero Rapporto l’approfondimento verticale sulle singole tematiche sopra identificate – una lettura orizzontale per “macrosegmenti” di mercato, riassumendo i risultati più interessanti emersi dalla analisi in relazione agli impianti sulla terraferma di medie e grandi dimensioni (ossia comunque sopra i 200 kW e che corrispondono oggi a oltre il 99% dell’installato in Italia), agli impianti mini eolici (meno del restante 2%) ed infine agli impianti offshore di cui, nonostante l’elevato potenziale del nostro Paese, non si registra ad oggi alcuno sviluppo in Italia.

L’eolico onshore di medie e grandi dimensioni
L’installazione di un impianto eolico onshore di medie e grandi dimensioni richiede complessivamente – se si prende a riferimento il dato medio europeo dell’ultimo biennio – investimenti nell’ordine di 1,4 mln €/MW. Larga parte di questi costi (circa il 72%) è dovuto al costo dell’aerogeneratore, il vero e proprio cuore del sistema eolico, che ha il compito di “catturare” l’energia cinetica del vento, trasformarla in energia meccanica attraverso l’impiego delle pale eoliche (con diametri di oltre 100 metri per impianti singoli di taglia pari a 3,5 MW) ed infine, con l’ausilio di un generatore, in energia elettrica. La restante parte dell’investimento serve a coprire i costi di consulenza tecnica e sviluppo del progetto (che pesano circa per l’8%, comprensivo anche della gestione delle pratiche autorizzative), ed i costi per la realizzazione delle infrastrutture civili ed elettriche indispensabili a garantire il collegamento dell’impianto alla rete.
Soprattutto a causa dei limiti fisici insiti nel modo in cui si “cattura” l’energia del vento, gli impianti eolici oggi installati hanno una efficienza media misurata “ai morsetti”, ovvero tenendo conto dell’energia elettrica effettivamente immessa in rete rispetto a quella eolica impattante sulle pale e dalla disponibilità media di vento, in assoluto piuttosto bassa e compresa fra 12 e 15%. Ciò nonostante – tenendo conto di una producibilità media in Europa corrispondente a 2.000 ore equivalenti di pieno funzionamento (ovvero rispetto alle quali un impianto della taglia di 1 MW produce 2.000 MWh/anno) e di un ciclo di vita pari almeno a 20 anni – il costo dell’energia prodotta (o LEC – Levelized Energy Cost) da impianti eolici in Europa è in media pari a 7 c€/kWh, ovvero si sta già lavorando in condizioni molto prossime alla grid parity.
E’ evidente come in questo caso la sfida principale a livello di sviluppo della tecnologia sia quella di rendere ancora più competitiva la produzione di energia da fonte eolica. E’ indubbio, infatti, che il valore di LEC sopra riportato risenta direttamente delle scelte di posizionamento degli impianti che hanno ad oggi privilegiato naturalmente le aree a maggiore ventosità. Siamo ancora però ben lontani dal pieno sfruttamento dell’energia del vento e la ricerca si sta concentrando sull’incremento dell’efficienza, ovvero sulla riduzione della soglia di ventosità (ad oggi attorno ai 6 m/s) che rende appetibile un investimento in un impianto eolico.
Le strade da percorrere in questo senso possono ricondursi a tre, con una elevata varietà di competenze di base (dall’aerodinamica, alla meccanica, alla fisica) in gioco:
(i) l’incremento – mediante l’introduzione di più complessi sistemi di posizionamento e controllo delle pale del rotore – dell’efficacia di “cattura” del vento impattante;
(ii) l’aumento – attraverso la “scala” degli aerogeneratori, che è passata dagli 800 kW di 10 anni fa ai 3,5 MW di oggi, e la conseguente ampiezza del diametro delle pale – della efficienza di trasformazione meccanica dell’energia del vento;
(iii) la riduzione delle perdite di trasformazione in energia elettrica, soprattutto con l’adozione di generatori elettrici sincroni basati sul principio dei magneti permanenti rispetto ai tradizionali sistemi trifase ad induzione (che richiedono un delicato meccanismo di moltiplicazione dei giri).

Rispetto a questo quadro “idilliaco”, la situazione specifica dell’Italia presenta non poche caratteristiche negative. In primo luogo va sottolineato come il livello medio di costo di un impianto eolico nel nostro Paese, registrato negli ultimi anni, è stato pari a 1,6 mln €/MW (circa il 20% in più rispetto alla media europea), soprattutto a causa degli extracosti di sviluppo e progettazione (dovuti agli elevati tempi e costi necessari alla concessione delle autorizzazioni) e al costo per l’acquisizione dei terreni e la predisposizione delle necessarie infrastrutture viarie, che risulta doppio rispetto alla media europea.
Inoltre, sembra che il nostro Paese sia rimasto “indifferente” al trend di incremento delle dimensioni e delle potenze dei singoli aerogeneratori, con una dimensione media decisamente più limitata rispetto agli altri Paesi europei. Poiché la crescita della taglia è, come discusso prima, “sinonimo” di innovazione tecnologica, il gap misurato equivale a dire che ogni anno in Italia vengono installati aerogeneratori che negli altri mercati eolici più sviluppati non si utilizzano più ormai da più di 2 anni.
La ragione, in questo fortemente connessa alla precedente, è il lungo processo di autorizzazione e realizzazione di un impianto nel nostro Paese che, con una durata complessiva di circa 4 anni, è più lungo di oltre il 50% rispetto a quello tedesco. A questo si aggiunge il fatto che, per limitare l’impatto dei complessi processi autorizzativi, gli operatori preferiscono installare macchine di limitate dimensioni, anche se meno efficienti e performanti.
Il mercato italiano è pur tuttavia il settimo mercato al mondo ed il quarto in Europa (dopo Germania, Spagna e Francia), con una potenza cumulata a fine 2011 di 6,7 GW (il 7% del totale a livello europeo e il 3% a livello mondiale), distribuita in oltre 5.300 aerogeneratori. Di questi circa 0,95 GW (e 587 aerogeneratori) sono stati installati nel corso dell’ultimo anno, in linea con i livello di domanda dell’anno precedente e con un trend estremamente positivo che negli ultimi 10 anni ha fatto segnare incrementi medi della nuova potenza installata pari al 26% l’anno.
La nostra analisi ha permesso di evidenziare come il livello della redditività full equity di un impianto eolico di medie dimensioni in Italia sia compreso tra il 10 e il 15% per producibilità intorno ai 2.000 MWh/MW (condizioni che si riscontrano, ad esempio, nel Sud Italia ed in particolare in Puglia ad altezze di 75 metri dal suolo, ove appunto si concentra la gran parte delle installazioni), e tra il 2 e il 5% per producibilità intorno ai 1.000 MWh/MW (condizione tipica, ad esempio, del Nord Italia, in Regioni come la Lombardia sempre a 75 metri di altezza). E’ ovvio che, perché il mercato si sviluppi e per ottenere rendimenti di questo tipo, lo svantaggio indicato in precedenza con riferimento al maggior costo di investimento deve necessariamente essere controbilanciato da un generoso sistema di incentivazione (in media ancora nel 2012 del 20% più “generoso” rispetto alla media europea).
Dopo un periodo di “espansione”, nel 2007 e soprattutto nel 2008, conseguente all’introduzione dell’obbligo di ritiro da parte del GSE dei Certificati Verdi invenduti (il sistema di incentivazione con cui a partire dal 2000 si è “finanziato” il settore dell’eolico, oltre alle altre rinnovabili elettriche non fotovoltaiche), si sono susseguiti a partire dalla metà del 2009 interventi di contenimento della spesa da parte del legislatore che hanno più volte messo in dubbio dalle fondamenta il meccanismo dei Certificati Verdi. Sino ad arrivare al 2011, con l’emanazione del Decreto Rinnovabili (D.Lgs. 28/11) che ne ha previsto la definitiva cessazione a partire dal 2013 ed il conseguente rallentamento delle installazioni cui stiamo oggi assistendo.
Il 13 Aprile 2012 è stato pubblicato – anche se si attende ancora a giorni la pubblicazione della versione definitiva, dopo il dibattito e l’intervento della Conferenza Stato-Regioni nelle prime settimane di Giugno – lo schema di Decreto Interministeriale che deve dare corso “operativo” alle linee guida stabilite nel 2011.
Il sistema a detta degli operatori presenta luci ed ombre, ma con le ultime purtroppo a prevalere.
Se infatti non paiono esserci problemi di sorta per gli impianti che entreranno in funzione entro la fine del 2012 e per tutti quelli attualmente in funzione, per i quali è previsto un transitorio verso l’eliminazione dei Certificati Verdi estremamente “morbido” e non impattante sulla redditività dell’investimento.
Molto più complessa è la situazione per i nuovi impianti, soprattutto quelli con taglia superiore a 5 MW (oltre il 99% della nuova potenza entrata in funzione nel 2011), per i quali è prevista l’assegnazione degli incentivi tramite procedura pubblica di asta al ribasso, bandita dal GSE con cadenza annuale.
Le tariffe incentivanti (ossia la base d’asta) sono state riviste al ribasso ma se ne è prolungata l’applicazione (da 15 a 20 anni) garantendo in buona sostanza livelli di redditività, almeno sulla carta, assolutamente sostenibili. Quello che gli operatori del settore però criticano fortemente, probabilmente a ragione, è il livello estremamente limitato del contingente di potenza incentivabile attraverso il meccanismo dell’asta (1.500 MW per il prossimo triennio, circa metà di quanto fatto registrare come installato del triennio appena trascorso) e l’introduzione di un ulteriore grado di complessità burocratica ed incertezza (in altre parole maggiori costi, tempi e difficoltà nel negoziare il debito con le banche).
In una situazione come questa le nostre previsioni sull’installato dei prossimi 3 anni sono comprese tra molto meno di 1 GW – in uno scenario pessimistico in cui l’acuirsi della competizione nelle aste comportasse che il 50% degli impianti aggiudicatari non saranno in realtà realizzati a causa di livelli tariffari troppo bassi, oppure dello svilupparti di un deleterio “mercato della carta”, quale quello di cui si è già avuto esempio nel fotovoltaico della prima ora – a quasi 1,5 GW nel caso in cui il settore sia comunque in grado di adattarsi rapidamente al nuovo meccanismo. In entrambi i casi decisamente inferiore al potenziale di circa 3 GW nel prossimo triennio, che gli operatori riconoscevano al settore prima dell’entrata in vigore dei nuovi incentivi.
Al potenziale per il nuovo installato andrebbe poi aggiunto il mercato, sulla carta estremamente interessante, del repowering di parchi eolici già esistenti. La sostituzione di aerogeneratori datati con tecnologie più innovative consente di sfruttare la maggiore efficienza di macchine che hanno raggiunto più elevati diametri e altezze del mozzo a parità di occupazione del suolo. L’aumento possibile della potenza che si otterrebbe sostituendo gli impianti dotati di turbine con potenza inferiore a 1 MW installati fino al 2001 in Italia è pari a 1,6 GW.
Se si amplia l’orizzonte di analisi considerando gli impianti realizzati fino al 2005, il potenziale raggiungibile per repowering è di circa 2,7 GW. Anche in questo caso, però, purtroppo le procedure di incentivazione previste dallo Schema di Decreto del 13 Aprile 2012 penalizzano questi interventi di ri-potenziamento, prevedendovi il medesimo,
e particolarmente complesso, processo di autorizzazione che si applica ai nuovi impianti. In base alle interviste effettuate, emerge come siano molto pochi gli operatori disposti a sobbarcarsi questi oneri burocratici, il che lascerà probabilmente ampiamente inespresso questo potenziale di repowering.
Le previsioni di riduzione dei volumi installati certo non aiutano una filiera che ha generato nel 2011 complessivamente 3,3 mld € di volume d’affari, già sostanzialmente stabile rispetto al 2010.
Nel Rapporto si analizza con dovizia di particolari l’articolazione della filiera industriale dell’eolico nel nostro Paese e quindi alla lettura integrale del capitolo 4 si rimanda per ulteriori approfondimenti su questo articolato tema. Giova qui però sottolineare come anche per l’eolico, come per tante altre fonti rinnovabili, la presenza italiana – che pure è rilevante con oltre 230 imprese censite nella nostra indagine – si concentra sostanzialmente nelle fasi “a valle” della filiera. Il 71% delle imprese di progettazione e installazione è italiano (con margini medi calcolati sull’EBITDA del 14%) ed analoghe percentuali si rilevano nella fase di gestione e manutenzione degli impianti (con EBITDA margin più elevati e variabili), mentre la restante parte è per lo più rappresentata da operatori esteri con filiale in Italia. La quota di aziende del nostro Paese scende però al 48% se consideriamo la produzione di componenti (9% di EBITDA margin) e rappresenta solo il 14% sul totale delle realtà che producono aerogeneratori (10% di EBITDA margin). Nei segmenti più a monte della filiera le aziende straniere con filiale italiana sono più presenti dal punto di vista numerico e c’è più spazio per l’import puro dall’estero.

Il mini eolico
Si identificano in questo Rapporto con il termine mini eolico, coerentemente con quanto previsto dalla normativa italiana (anche se giova sottolineare come non esiste una definizione universalmente riconosciuta), gli aerogeneratori per la produzione di energia elettrica di taglia compresa fra 1 e 200 kW.
Si tratta in buona sostanza di sistemi di trasformazione dell’energia del vento in energia elettrica molto  simili (ad eccezione delle soluzioni, assai poco diffuse però, con asse di rotazione verticale e quindi “parallelo” anziché ortogonale alla direzione del vento) a quelli di più grandi dimensioni, ma con la possibilità – particolarmente interessante in Italia – di avviarsi e quindi di produrre energia anche a velocità nell’intorno di 3 m/s (circa 11 km/h) contro i 5-6 m/s dei sistemi più grandi. L’incremento delle ore potenziali di funzionamento è però più che controbilanciato dalle minori efficienze di “scala” nella generazione elettrica e nel costo di investimento, che va dal +70% sino al +300% (per gli impianti sotto i 10 kW) rispetto all’eolico di medie e grandi dimensioni. A questo vanno poi aggiunti – salvo i casi “fortunati” in cui il dato è già a disposizione – i costi per la realizzazione della campagna anemometrica, che costituisce un ulteriore aggravio sino al 10% del totale dell’investimento per le taglie inferiori a 5 kW.
In buona sostanza, un impianto da 10 kW che funziona per 20 anni e produce mediamente 15 MWh all’anno ha un LEC di 16 c€/kW. Un valore certo quasi doppio rispetto all’analogo registrato per gli impianti più grandi, ma se si considera che in questo caso l’impianto può essere al servizio di utenze residenziali, commerciali o industriali di
piccola taglia, il termine di paragone per la grid parity si sposta al costo di acquisto dell’elettricità dalla rete (in media proprio 16 c€/kW in Italia per questo tipo di utenze).
Nonostante questo, le problematiche autorizzative cui anche in questo caso (anche se su scala relativamente inferiore) si va incontro e, soprattutto, il paragone “impietoso” con sistemi di generazione alternativi quali il fotovoltaico (che oggi costa mediamente il 30% in meno e genera rendimenti di investimento per queste taglie comunque più elevati a parità di potenza) hanno fatto sì che il mercato italiano del mini eolico rimanesse un mercato di nicchia.
Alla fine del 2011, in Italia la potenza complessivamente installata in impianti mini eolici ha raggiunto i 13 MW (il 2% del totale mondiale, che è per l’80% equamente suddiviso fra Cina e USA), distribuiti in circa 300 installazioni. Il valore assoluto è certo non significativo ma vi sono comunque almeno due segnali importanti che devono essere sottolineati: il trend di crescita quasi esponenziale che dal 2009 ad oggi ha permesso al mercato del minieolico di “guadagnare” un ordine di grandezza, da poco più di 1,5 MW a oltre 13 MW appunto; il balzo delle installazioni nel corso del 2011, anno nel quale si sono installati impianti per 9,1 MW, corrispondenti a 2,1 volte la potenza cumulata alla fine del 2010.
E’ la Puglia, anche in questo caso, con oltre 4,7 MW di potenza installata, la Regione leader in Italia per il mini eolico, seguita al 25% di quota (3,4 MW) dalla Campania e dalla Basilicata (14% con 1,8 MW). Le Regioni del Centro (25%) e del Nord Italia (5%) giocano invece un ruolo marginale. Le previsioni di mercato per il 2012 appaiono ancora positive con una crescita delle installazioni nell’intorno di 10 MW, portando ancora una volta al quasi raddoppio dell’installato totale nel corso di un anno. Ancora più interessante sottolineare come i titolari di impianti mini eolici in Italia siano in buona sostanza le imprese agricole e le tenute olivicole e vitivinicole. Si tratta del segmento di mercato che si è rivelato e si attende nel breve rimanere più sensibile – soprattutto in un periodo di fortissima crisi della produzione agricola – alla possibilità di integrare il proprio reddito con l’incentivazione derivante dalla produzione di energia elettrica da mini eolico. La disponibilità di grandi aree e quindi la possibilità, da un lato, di scegliere quelle ove fosse migliore l’esposizione al vento e, dall’altro lato, di ridurre le “opposizioni” all’installazione da parte di altri soggetti e soprattutto dalla Pubblica Amministrazione, ha fatto il resto.
Se si sposta l’orizzonte di riferimento al 2013, tuttavia, la situazione diviene molto più incerta. Si attende infatti l’introduzione – per effetto delle conseguenze del Decreto Rinnovabili del 2011 – di un meccanismo di regolamentazione degli accessi agli incentivi mediante Registro per tutti gli impianti sopra i 50 kW. Le tariffe onnicomprensive garantite per gli impianti eolici di piccola taglia (a cui accedono direttamente gli impianti sotto i 50 kW) sono giudicate interessanti e, pur in un contesto generale di “tagli”, ancora ben remunerative. Il tasso di ritorno relativo al nuovo sistema di incentivazione è pressochè identico (e addirittura superiore per gli impianti più piccoli, dove minore è il taglio della tariffa) a quello garantito dall’attuale incentivazione, con rendimenti di tutto rispetto che vanno dal 6-7% (se si assume la condizione di ventosità media nel nostro Paese) sino a oltre il 10% per i siti maggiormente ventosi. Eppure, ancora una volta, ed anche visti i numeri limitati del minieolico, il legislatore pare non aver tenuto in debito conto (il 93% delle installazioni attuali ha una taglia inferiore a 80 kW) di come rendere complesso il processo di autorizzazione introduce maggiore incertezza nelle tempistiche e aumenti la difficoltà di avere accesso a finanziamenti dal sistema bancario.
Nonostante quindi un potenziale molto ampio – fino a 1.000 MW di installazioni nel lungo termine – il mercato italiano sembra destinato (in assenza modifiche che possano intervenire a valle delle discussioni dello schema di Decreto) a rimanere “mini” anche nei numeri. A risentirne in particolare è la filiera industriale, estremamente parcellizzata e caratterizzata dall’assenza di grandi operatori, ma che comunque può contare su oltre 150 imprese (in larga parte italiane e con 10/15 addetti in media) impiegate sia nella attività di progettazione e installazione, che nelle attività di produzione degli aerogeneratori e dei componenti. Le imprese del mini eolico tuttavia – la maggior parte delle quali nate negli anni 2000 – stanno dimostrando una buona capacità di reazione, puntando sull’innovazione tecnologica e sull’espansione in altri mercati europei come “ricetta” per superare la crisi, non tanto quella di oggi quanto quella che si troveranno verosimilmente ad affrontare dal 2013. 

L’eolico offshore
Le installazioni eoliche marine rappresentano indubbiamente una delle frontiere, sia dal punto di vista della tecnologia che del business, più interessanti del settore nel suo complesso. Va però chiarito, quasi in premessa, che tutti i progetti presentati negli ultimi anni in Italia sono stati bocciati o si sono “arenati” nella fase autorizzativa.
La situazione appare completamente diversa se si guarda all’Europa nel suo complesso, con 3,8 GW complessivamente installati nel 2011 e con un tasso di crescita annuo ponderato nel periodo 2007-2011 del 41%. Nel corso dell’ultimo anno sono stati installati nei mari dell’Europa 9 impianti per 235 turbine, con una potenza complessiva pari a 866 MW. La realizzazione di questi impianti ha richiesto investimenti per oltre 2 mld € (il 25% del totale investito in Europa nel settore eolico nel suo complesso), in crescita questi del 40% rispetto agli 1,5 mld € circa investiti nel 2010. Le previsioni più accreditate riportano la quota di investimenti in impianti offshore in possibile crescita sino a raggiungere il 50% del totale investito nel settore eolico in Europa entro il 2020. L’interesse per questo tipo di applicazioni è confermato dal fatto che Regno Unito e Germania stanno guidando la corsa per le nuove installazioni, avendo attivato già oggi nuovi progetti che dovrebbero portare a 2,3 GW installati entro i prossimi 5 anni.
L’interesse per le installazioni offshore si basa sul fatto che: (i) possono sfruttare maggiormente, per l’assenza di ostacoli (edifici o alture), le correnti aeree, che peraltro si manifestano con maggiore intensità sul mare; (ii) non hanno, purché opportunamente distanziate dalla costa, un impatto negativo sul paesaggio e certamente non interferiscono con le attività umane.
Ovviamente a questi vantaggi si accoppiano altrettanti svantaggi che possono per simmetria essere raccolti in due punti principali:(i) necessitano di “fondazioni” ad hoc per adattarsi all’ambiente marino, e perciò hanno un costo ancora oggi circa doppio degli analoghi onshore; (ii) necessitano di infrastrutture ad hoc di collegamento alla rete elettrica, che potrebbero rivelarsi a breve un “collo di bottiglia” importante per lo sviluppo del settore.
Le attuali forniture a livello mondiale possono arrivare a 1.700 km di linee, sufficienti per aggiungere al massimo 3,5 GW di potenza l’anno, ma già dal 2015 la domanda di cavi potrebbe superare l’offerta, giacché la capacità produttiva dei fornitori, che sono pochi in tutto il mondo (tra i principali Nexans, ABB, NKT, Scanrope e l’italiana – prima parte del gruppo Pirelli – Prysmian), non reggerà il passo con lo sviluppo degli impianti offshore.
I grandi fornitori internazionali di tecnologie si stanno muovendo attivamente in questo campo ed altrettanto stanno facendo i grandi investitori, interessati a “sponsorizzare” i principali parchi marini che hanno taglie medie nel 2011 di circa 200 MW per singolo investimento. L’Italia non può certo competere sulle attività “a monte” e pur tuttavia – se si superano le barriere normative e procedurali che hanno bloccato anche i pochi progetti presentati negli ultimi anni – ci sarebbe spazio per tutte le attività “locali” e “di servizio”, con un potenziale ancora del tutto non sfruttato che viene stimato in circa 10 GW su 1.600 km2 di mare del nostro Paese.

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