Residenze in via Bixio



La risposta alla richiesta di una città sostenibile

Un blocco di travertino locale ruvido, segnato, scavato quasi ad inseguire le vene cave che affiorano quando si estraggono i blocchi dalla cava, (neanche dieci chilometri dal cantiere), la stessa cava utilizzata dai Romani per costruire il tratto della Via Appia che attraversa il territorio pontino, la stessa degli edifici di fondazione di Latina.
Ed una copertura aerea e trasparente, di cristallo blu tagliato secondo linee di frattura triangolari, le stesse linee implicite e segrete inseguite con pazienza infinita dai tagliatori di pietre preziose.
Questa è la palazzina di via Bixio, a Latina. La risposta alla richiesta di una città sostenibile. Figlia dell’esperienza maturata nella realizzazione del condominio appena ultimato a via Frosinone, sempre a Latina.
Un edificio ad integrazione totale, alimentata da uno scudo fotovoltaico in copertura che diventa un elemento architettonico e non una aggiunta da mimetizzare o nascondere.
Piuttosto un elegante cappellino, una veletta maliziosa, come usano le signore nelle occasioni in società, con il suo taglio diagonale apparentemente vezzoso, in realtà orientato con le sue due falde ad implementare il vento proveniente da sud-est e da nord ovest, direzioni prevalenti di questo prezioso flusso di energia da non trascurare.
Integrata dalla trama sottile delle serpentine in rame che si scaldano immerse in quel velo sottile di aria calda che si crea sotto la pagina di cristallo.
E per coronamento lo sventolio festoso delle eliche del microelico espressamente realizzate per lei, la signora di via Bixio, perché nelle giornate di vento e di cielo coperto comunque resti attivo un metabolismo capace di dare elettricità ai servizi degli appartamenti.
Dodici fori a cinquanta metri per recuperare dal ventre della terra la temperatura indisturbata che d’estate raffreschi il pavimento, integrata da una combinazione con un sistema di raffrescamento naturale dell’aria che trascinata sotto il piano del solaio a terra viene risucchiata in alto copiando il sistema delle torri solari.
L’obbiettivo è quello di costruire degli spazi dove abitare capaci di garantire il massimo del benessere, con caratteristiche di isolamento ben oltre gli standard di legge, capaci di proteggersi dal caldo e dal freddo, dai rumori, capaci di proteggere chi vi abiterà dalle condizioni climatiche avverse e dagli indesiderati, programmati e costruiti per non avere manutenzione, che facciano un buon uso delle acque, capaci di gestire il loro metabolismo con il minimo impiego di risorse da rete.
Ma c’è un’altro obbiettivo.
Quello di costruire qualcosa che sia anche bello da abitare, facendo i conti con l’Architettura.
E di verificare se il concetto di integrazione totale tra edificio e tecnologie sia una meta attingibile, e con che soddisfazione delle aspettative.
E’ tempo di provare a mettere in fila un grumo di pensieri che hanno più attinenza col mestiere dell’architetto, se è vero che di ogni viaggio. (mi riferisco all’esperienza maturata nella precedente palazzina), si conserva sopratutto  il ricordo dell’ultimo profilo di monte sfiorato solo con lo sguardo ed il rammarico di non averlo attraversato, per il tempo che mancava, o le forze.
Il termine ‘integrazione totale’ reso popolare dalla legislazione messa in campo per incentivare l’applicazione delle energie rinnovabili allude all’armonizzazione tra gli elementi tecnologici e l’edificio inteso come sistema formale autonomo e conserva in sé il senso dell’azione, del movimento ad incontrarsi di entità diverse tra loro, manipolate, indotte in qualche modo a convivere in maniera composta e possibilmente garbata, con un minimo di buon senso, o di buon gusto.
E la domanda: che c’è oltre questo risultato, è questa l’ultima vallata del viaggio, o l’orizzonte nasconde uno sviluppo diverso, e questa ‘integrazione totale’ è solo un passaggio, una tappa intermedia, uno scalo di servizio?
Quale potrebbe essere l’impatto sul linguaggio dell’Architettura di un processo che veda sempre più esplicita la presenza degli elementi tecnologici, ma anche strutturali, delle tecniche di manutenzione e dei sistemi di sicurezza, delle modalità di demolizione e di riuso dei materiali utilizzati nella costruzione, di tutti gli accorgimenti e le innovazioni per così dire di contaminazione della nobiltà pura dei segni comunemente accettati che oggi certificano questa disciplina formale?
Viene in mente ossessivamente una figura. L’ultimo maestro di eloquenza latina, custode della ricchezza della lingua di Cicerone, di Catullo, di Virgilio, ed il suo sconcerto di fronte al dilagare della lingua volgare, del tutto priva dell’eleganza assoluta del linguaggio classico, delle sue concatenazioni magistrali, della sua metrica, delle sue figure retoriche, della sua simmetria.
Una quarantina d’anni prima del mille questa lingua scomposta e popolana irrompe in un documento ufficiale, è il cosiddetto placito capuano, una testimonianza resa davanti ad un notaio, rimasta famosa nella storia della lingua italiana.

“Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.”

Un paio di secoli ancora e nasce a Firenze un uomo che raccoglie questo materiale quasi informe, popolano, povero, e scrive, con quelle parole, quella sintassi disarticolata, quei suoni semplici, un capolavoro come la Divina Commedia.
E viene il sospetto che il linguaggio con cui si disegnano oggi le città possa essere giunto al termine del suo ciclo, e che questi elementi per così dire volgari in quanto estranei finora alla ‘composizione architettonica’ non siano che gli incunaboli di un linguaggio a venire totalmente differente da quello così profondamente stratificato nel nostro comune pensiero più o meno consapevolmente ancorato alla definizione vitruviana che una buona architettura debba avere i tre requisiti fondamentali della bellezza, della sobrietà e della buona tecnica.
E questo passaggio potrebbe non essere una questione di scelta, ma una transizione ineludibile.
Si può pensare a disegnare la città come se fosse un organismo metabolico anziché un sistema formale? Potremmo pensare agli edifici come fossero elementi di una raffinata ingegneria organica, capace di attingere a categorie di bellezza matematica, come quelle implicite nella struttura di un fiocco di neve, o di un albero, capace di adattarsi a grembi ecosistemici diversi modulando il sistema radicale, lo spessore della corteccia, il tipo di foglie, l’altezza del tronco e la forma della chioma, l’attacco dei rami, la densità della distribuzione nell’areale elettivo…
Se in un momento di inqualificabile follia l’uomo dovesse scatenare la distruzione totale del suo patrimonio di conoscenza nessuno scriverebbe più di Odisseo o di Macbeth, non ci sarebbe più un Mozart a stendere la partitura del Requiem, né i nostri postumi potrebbero ammirare la Pietà michelangiolesca.
Ma il teorema di Pitagora, la legge di Newton, il teorema dei minimi di Fermat, tracce di una logicità, di una bellezza implicita nell’Universo, riaffiorerebbero ineludibilmente, prima o poi sarebbero di nuovo disvelati.
Bellezza diversa quella delle opere cosiddette di ingegno, frutto della creatività umana, e la bellezza matematica che potremmo definire il DNA del creato, bellezza assoluta e silenziosa, implicita, logicissima e inaggettivabile, fluida, a togliere anziché ad aggiungere, che avviluppa ed intride di sé la materia, la vita, il cosmo.
Viene da chiedersi ancora se non sia attingibile un modo di costruire che si faccia carico di questa bellezza diversa, molto lontana dalla gabbia della composizione, dell’armonia tra le parti, della simmetria o della calcolata giustapposizione dei volumi, della sagace invenzione formale, del rapporto tra vuoti e pieni di cui argomenta la critica sulle riviste che si interessano di un’Architettura cosiddetta moderna.
Ma il termine moderno deriva da una parola latina, hodiernum, letteralmente “relativo all’oggi”.
Nell’accezione specifica del linguaggio dell’Architettura un edificio moderno dovrebbe essere un edificio che respira e rappresenta il pensiero del tempo, il pensiero dell’oggi, il pensiero odierno.
Ma di questo io non sono affatto certo. E a dirla tutta m’è venuta certezza del contrario.
Faccio l’architetto cercando di farlo con tutta la consapevolezza di cui sono capace, conscio del compito che la storia affida a chi disegna il volto delle Città, il volto delle generazioni che commissionano agli architetti di costruire il ritratto del pensiero, delle ambizioni, della filosofia di vita di un popolo in quel preciso segmento della storia.
Io non sento nelle mani questa certezza rinascimentale che vedo rappresentata negli edifici che si costruiscono alla maniera moderna.
Non solo, ma disegnare il volto della città, per le implicazioni che comporta deve farsi carico di ciò che accadrà domani, deve farsi carico soprattutto del futuro, deve cioè non solo gettare lo sguardo al di là di quella frontiera del giardino incantato e domestico di un pensiero architettonico condivisibile e rassicurante, ma di anticipare quel futuro in forma costruita.
Quella frontiera va attraversata caricandosi sulle spalle tutto il peso dell’inquietudine, la paura, i rischi, l’insicurezza, il mal di stomaco, il sonno agitato che ciò comporta.
La sfida è quella di stendere sul nostro tavolo da disegno i tratti di un’Architettura della logicità, essenziale e calibrata come un albero che in condizioni diverse dispiega foglie e forma dei rami differenti, ed un diverso modo di articolare il suo apparato radicale, un’Architettura leggera e bellissima come le ali di un uccello, così sottili ed eleganti, eppure così forti, e così proporzionate allo sforzo cui sono chiamate.
Un’Architettura che prenda in prestito le risorse naturali che le occorrono per il ciclo temporale che le è proprio e le restituisca intatte al venire meno delle ragioni che l’hanno resa indispensabile.
Un’Architettura sensibile al contesto che in qualche modo la genera, un’Architettura delle scoperte anziché dell’invenzione artistica personale o di gruppo che sia.
Torna in mente il Testamento di Frank Lloyd Wright sull’organicità dell’Architettura, su quelle sue planimetrie con matrice esagonale allusive alla maniera con cui le api costruiscono i loro alveari e corre il dubbio che quel suo messaggio non sia stato del tutto decifrato, o forse non del tutto portato in superficie, neppure dal suo stesso autore.
Torna in mente Le Corbusier e la sua ‘Machine à habiter’, e sorge lo stesso dubbio, che il lascito di questo altro pilastro dell’Architettura moderna sia ancora in gran parte da esplorare e da mettere a frutto e che ne possiamo aver compreso solo la parte più epidermica ed accattivante, quella formale.
Metto sul tavolo ingredienti altri da quelli usuali ed appena accennati.
Una logica costruttiva capace di realizzarsi con elementi che debbano semplicemente essere assemblati in cantiere, perché questo potrebbe significare un consistente risparmio dei tempi di costruzione e dei costi di smantellamento.
Una attenzione costruttiva che tenga conto della sicurezza di chi provvede a costruire, perché possa svolgere il suo lavoro in un contesto in cui i rischi siano stati valutati ed eliminati, in cui l’impegno fisico sia ridotto al minimo perché l’affaticamento abbassa la capacità di concentrazione e perché le cose costruite debbono mantenere una memoria segreta anche della gioia, della soddisfazione, dell’orgoglio di chi le ha realizzate.
Componenti di base che possano con la stessa facilità essere smontati per ogni esigenza di manutenzione, di trasformazione o di semplice aggiornamento dell’edificio, anche in caso di modifica strutturale dovuta alle cause più disparate che possano insorgere nel corso della vita dell’edificio stesso.
Materiali che una volta entrati nel ciclo costruttivo possano essere riutilizzati all’infinito nel processo, in maniera da alleggerire il decadimento entropico delle risorse a disposizione e da restituire in forma di bonus di fine ciclo lo stesso materiale impiegato pronto per il successivo riutilizzo. Una sorta di presa in prestito dal sistema totale per un utilizzo finalizzato e temporaneo.
Un modo gentile e discreto di stare sul pianeta, quasi in punta di piedi, usando con parsimonia quello che ci occorre, pronti a darlo indietro quando andiamo via, quando abbiamo fatto il nostro lavoro.
Anche se nessuno di questi ragionamenti potrà mai essere sufficienti a dare vita ad una buona Architettura.
A monte di questa c’è l’incomprensibile, inspiegabile felicità di un atto creativo, di un’intuizione poetica che sintetizza in un frammento di tempo cose apparentemente inconciliabili e lontane, talvolta opposte, eppure capaci di assumere un senso unico, irreplicabile.
L’Architettura non può aver bisogno di essere spiegata, essa è capace di spiegarsi e di spiegare, ha nel suo genoma l’efficacia di un linguaggio completo, totale, possente.
Una buona guida turistica potrà parlarvi a lungo dei rapporti tra le masse e le proporzioni degli ordini del progetto michelangiolesco per la Piazza del Campidoglio, ma voi sentirete la intrinseca universalità di quel luogo solo se lo attraverserete inciampando con i vostri passi nella trama del disegno a pavimento, se incrocerete il vostro sguardo con quello di Marco Aurelio, e se nella leggera curvatura del pavimento leggerete l’intenzione di Michelangelo di riprodurre la curvatura della terra sulla cui sommità c’è quel gesto dell’Imperatore filosofo che cavalca quieto voltando le spalle alla Roma dei Fori e muovendosi verso l’orizzonte della sera.
Così come mai nessuno potrà spiegarvelo cosa si possa provare salendo la rampa elicoidale del Guggenheim di New York, con quella spirale che va su e si dilata e sembra esplodere verso la luce del grande lucernario di copertura, che non ha la natura della chiusura, ma piuttosto quella di una porta verso l’infinito cielo.
Se provate a disegnare l’ideogramma del Guggenheim di Wright vi basteranno sette secondi.
Gli stessi sette secondi che sono sufficienti a profilare Giza, il Pantheon, Santa Sofia, Taji Mahal, San Pietro.
Cosa ci sia dietro quella fulminazione istantanea per cui bastano sette secondi a disegnare l’ideogramma di Wright da cui è uscito con tutta naturalezza il Guggenheim di New York, il museo più bello del mondo, non potrà spiegarlo mai nessuno.
E’ un argomento controverso, o un argomento sensibile, in qualche modo l’argomento per definizione, al centro della riflessione umana da sempre.
Cosa sia l’Arte, e che natura abbia, ce lo siamo chiesto da subito, dagli albori del nostro cammino all’interno della nostra coscienza, e come corollario a questa domanda quella immediatamente successiva, ovvero chi sia il cosiddetto artista.
Perché abbiamo graffito le grotte preistoriche, perché abbiamo eretto Stonehenge, perché  ci siamo dipinti il volto quando eravamo guerrieri, perché abbiamo parlato per bocca di Alcmane dei capelli della nostra donna usando la metafora della “stella nella chiarìa del cielo…”, perché abbiamo scritto la Divina Commedia  per mano di Dante o il Requiem per mano di Mozart..?
E che attinenza possa avere l’Architettura con l’Arte, stanti le parole di Vitruvius, che l’Architettura non sia un’Arte, bensì Scienza.
E che senso possano avere i ragionamenti condotti in cui abbiamo scoperto che l’Architettura possa, o debba muoversi verso congruenze apparentemente altro da sé, come la logica, la matematica, l’organicità della gestazione di un progetto architettonico con concetti come il caos, l’entropia, la complessità, l’etica, la bellezza…
Verrebbe da dire che quello di cui abbiamo ragionato costituisce una sorta di paesaggio amico all’interno del quale incubare una intenzione qualunque di Architettura, una sorta di atmosfera, o di amnios in cui una idea di Architettura possa avere la possibilità di farsi embrione in un ideogramma con un DNA connaturato al microcosmo dell’uomo ed al suo profilo così  misteriosamente ed incomprensibilmente affine a quello dell’Universo, per dirla alla maniera di Leonardo e di Platone e di tutti gli altri che si sono arrischiati per questi percorsi impervi e frustranti, incerti, aleatori, eppure irrinunciabili.
Se una Architettura può essere buona, dovrebbe nascere già in un contesto di premesse che ne garantisca geneticamente la correttezza dei tratti, e delle caratteristiche, e del funzionamento, e del suo porsi in grembo ad un mondo il più bello ed adatto agli uomini ed alla loro storia.
Poi rimane il mistero di una matita che si muove su un foglio di carta, ed in sette secondi, obbedendo quasi ciecamente a chissà chi o chissà cosa riesce a raccontare in un ideogramma la storia di un fiume di gente e di automobili che scorre, di una porta sulla sponda di questo fiume, e dietro la porta tanti passi che autonomamente, ed in opposto alle intenzioni del progettista si muovono istintivamente in salita, girando su se stessi e trascinandoti in alto, procurando la vertigine e lo spaesamento del discoprire; e come compagni di viaggio le visioni profetiche, inquietanti, crudeli o gioiose dei più geniali protagonisti dell’arte moderna raccolte da un grande collezionista.
Ed in cima al cammino intuisci cosa vuol dire arrivare fino ai confini di quello che si può immaginare o conoscere.

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