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Che ce la si faccia o no nei tempi previsti, la direzione è presa ed è quella di un’edilizia sempre più “bio” ed ecologicamente sostenibile. Tirano un sospiro di sollievo tutti i sostenitori della nuova direttiva comunitaria sull’efficienza energetica, entrata in vigore il 9 luglio scorso. Nel settore, c`è già chi parla di un “green new deal” parafrasando il verbo di J. M. Keynes. Certo è che chi lo afferma non ha tutti i torti, se si ipotizza il giro di affari miliardario che questo provvedimento è in grado di generare. In sostanza, la direttiva stabilisce che i nuovi edifici, costruiti dal 2020, dovranno rispettare tutti i crismi della sostenibilità, incluso l’utilizzo di sistemi che sfruttino le fonti di energia rinnovabile, per raggiungere tre obiettivi: taglio dei costi in bolletta, risparmio del 20% di energia e riduzione del 20% delle emissioni di CO2. A dare il buon esempio, mettendo in pratica la nuova direttiva con due anni di anticipo, nel 2018, saranno le amministrazioni locali che dovranno applicarla nella costruzione degli edifici pubblici. Non è poco, ma c’è già chi si sta muovendo: la Gran Bretagna, per esempio, ha anticipato al 2014 la scadenza europea del 2020, mentre la Danimarca si è impegnata a rendere autosufficiente dal punto di vista energetico l’intero patrimonio edilizio, compreso l’esistente, a far data dal 2050. Fin qui, tutto bene. Almeno sulla carta, l’obiettivo dell’efficienza energica non è più un miraggio per i Paesi membri della Ue. Obiettivo raggiunto dopo due anni di discussioni, cioè da quando la Commissione ha deciso di rimettere mano alla direttiva del 2002. Tuttavia, la nuova normativa qualche perplessità la suscita, in particolare nel capitolo dedicato alla ristrutturazione di immobili esistenti, per renderli green. Stiamo parlando di interventi mirati, parzialmente incentivati da Bruxelles, come la sostituzione di impianti di riscaldamento, idraulici o di climatizzazione con altri ad alta efficienza o come l’installazione di contatori intelligenti. “Troppo poco”, contestano gli scettici. Tra i critici più convinti ci sono quelli del gruppo europarlamentare verde che, attraverso un suo autorevole esponente, Yannick Jadot, esprime delusione per il carente intervento di Bruxelles a favore delle ristrutturazioni. “La Ue – dichiara Jadot – si concentra sulle nuove costruzioni, senza valutare sufficientemente le esigenze di rinnovamento degli edifici esistenti, che rappresentano il 40% dei consumi di energia e il 36% delle emissioni di gas serra in Europa“. Qualche perplessità la esprime pure l’industria del mattone, rappresentata a livello europeo dalla Fiec, che chiarisce: “Non basta focalizzarsi sull’efficienza energetica dei nuovi immobili per raggiungere gli obiettivi di risparmio energetico del 20% fissati da Bruxelles per il 2020”. Perchè, osserva la Fiec, “ad oggi, le ristrutturazioni di vecchi edifici riguardano solo l’1% del mercato immobiliare. Ed è su questo ingente capitale – aggiunge – che bisogna indirizzare gli sforzi di efficienza energetica se si vuole arrivare al traguardo”. Dall’Europa all’Italia, il disagio dei costruttori si concentra in particolare sull’utilizzo dei due sistemi di calcolo differenti per la determinazione della classe di edifici. A sollevare il problema è Pietro Torretta, vicepresidente Ance, che riporta la posizione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, secondo cui “il settore edilizio ha la possibilità di contribuire per il 50% al taglio delle emissioni, ossia ha un impatto potenziale nella lotta ai gas serra superiore a quello ottenibile con l’adozione delle rinnovabili. L’edilizia, infatti, incide per il 40-42% sul totale della bolletta energetica nazionale e per il 32% sulle emissioni di gas serra”. Secondo il vicepresidente Ance, è quindi necessario che “la certificazione acquisti un ruolo propositivo non solamente nella costruzione di edifici nuovi, ma anche nella ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente. Si calcola che nel nostro Paese quattro edifici su cinque siano inefficienti dal punto di vista energetico: si tratta, quindi, di 23 milioni di costruzioni il cui recupero potrebbe costituire una spinta importante per l`economia italiana“. E non solo: perchè qui è in ballo il rilancio economico europeo. Di fatto, la direttiva, se applicata integralmente, potrebbe generare un enorme business, ad oggi non ancora quantificabile, e nuovi posti di lavoro. Un`idea di massima si può avere confrontando due report di settore. Il primo, commissionato da Eurima, ha scoperto che “gli edifici nella Ue 15 consumano 270 miliardi di euro ogni anno per mancanza di misure basiche di efficienza energetica, come tetti e pareti isolanti”. Il secondo, commissionato da Greenpeace, sottolinea invece come “un milione di euro di investimenti in efficienza energetica in genere comporta da 8 a 14 posti di lavoro in più ogni anno”. Tradotto: se la Ue investe 270 miliardi di euro in ristrutturazioni di efficienza energetica, potrebbe creare quasi 3 milioni di nuovi posti di lavoro in Europa (considerando una media di 10 posti di lavoro in più all’anno per ogni milione di investimenti). Il problema è un altro, e riguarda sempre la ristrutturazione degli edifici già esistenti. Se, infatti, esistono a livello internazionale gli standard di certificazione per la sostenibilità dei nuovi edifici – Leed, Itaca e Casaclima, tra i principali – ancora non esistono gli standard di certificazione per gli edifici da ristrutturare. Ed è proprio in questa direzione che le aziende nazionali dell’edilizia dovrebbero investire, sfruttando il grande patrimonio che ha l’Italia nello sviluppo di queste competenze: alcune realtà aziendali si stanno oggi distinguendo e stanno acquisendo commesse a livello internazionale proprio sulle ristrutturazioni ed i restauri. Fonte www.ance.it Consiglia questa notizia ai tuoi amici Commenta questa notizia
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