Piani climatici al 2035: la verifica di metà anno rivela gravi ritardi

Il bilancio di metà 2025 di Climate Action Tracker sui piani climatici dei governi rivela ritardi preoccupanti. Solo una manciata di Paesi ha presentato target aggiornati per il 2035, e nessuno ha rafforzato gli obiettivi al 2030. Il rischio di superare il limite di 1,5°C per decenni è ormai concreto, mentre il divario tra ambizione dichiarata e azione effettiva si allarga.

Piani climatici al 2035: la verifica di metà anno rivela gravi ritardi

A metà 2025 il Climate Action Tracker (CAT) ha rilasciato un aggiornamento che lascia poco spazio all’ottimismo: nonostante una scadenza anticipata per la presentazione dei nuovi obiettivi climatici (NDC) al 2035, solo 11 dei 40 Paesi analizzati hanno effettivamente consegnato un nuovo target. Di questi, soltanto uno – il Regno Unito – ha proposto un obiettivo che potrebbe ritenersi compatibile con il limite di 1,5°C, a patto che venga potenziato il supporto finanziario internazionale.

Il contesto globale non aiuta. Le emissioni continuano a crescere e la finestra temporale per correggere la rotta si sta restringendo. Il CAT sottolinea che, se non verranno presentati obiettivi più ambiziosi per il 2030, anche i migliori piani per il 2035 non saranno sufficienti. Un superamento del limite di 1,5°C sarebbe pressoché inevitabile, con effetti devastanti e di lungo periodo su ecosistemi e società umane.

Come spiega Bill Hare, CEO di Climate Analytics, “superare l’obiettivo di 1,5°C rappresenterebbe un fallimento politico gravissimo. Non per mancanza di mezzi, ma di volontà. Speriamo che la presidenza brasiliana della COP30 abbia un piano per spingere a un massiccio aumento dell’ambizione nelle NDC in linea con l’obiettivo di 1,5°C, ma al momento non vi è traccia di tale piano”.

Verifica del Climate Action Tracker (CAT) sui piani climatici dei paesi con obiettivi al 2030
I Paesi monitorati dal CAT rappresentano circa l’85% delle emissioni globali. Al 19 giugno 2025 solo 22 Paesi avevano presentato nuovi target, rappresentando il 19% delle emissioni globali del 2023.

«Avevamo previsto di calcolare l’impatto delle nuove NDC, ma c’è ben poco da quantificare e virtualmente nessun cambiamento rispetto a Baku 2024. Le NDC dei grandi Paesi che potrebbero fare la differenza – come UE, Cina e India – sono ancora assenti», ha dichiarato Ana Missirliu del NewClimate Institute

Obiettivi troppo deboli e troppa fiducia nei pozzi di assorbimento

Uno degli aspetti più allarmanti emersi dalla verifica è l’assenza di qualsiasi rafforzamento dei target al 2030. Nessuno dei Paesi monitorati ha colto l’occasione per correggere la rotta, nonostante le evidenze scientifiche suggeriscano chiaramente che dimezzare le emissioni entro la fine del decennio è indispensabile per evitare scenari climatici catastrofici.

Anche se Paesi come il Canada e la Svizzera hanno ufficialmente presentato obiettivi per il 2035 che, sulla carta, appaiono più ambiziosi rispetto a quelli del 2030 (ad esempio con percentuali di riduzione delle emissioni più alte), il loro reale allineamento con i percorsi scientifici compatibili con il limite di 1,5°C è peggiorato. Questo perché la distanza tra questi nuovi target e ciò che sarebbe effettivamente necessario fare per rispettare il limite di 1,5°C – secondo i modelli climatici basati su costi minimi e capacità tecnologica – è aumentata sia in termini assoluti (emissioni residue più alte del dovuto) che relativi (minor sforzo rispetto al potenziale del Paese).

Molti governi sembrano inoltre puntare sull’uso del suolo e sui cosiddetti “pozzi di assorbimento” per migliorare i propri bilanci climatici. Ma la scienza ci dice che queste strategie non possono sostituire la necessaria riduzione delle emissioni nei settori energetico, industriale e dei trasporti. È fondamentale che il contributo del settore LULUCF venga contabilizzato separatamente, per evitare distorsioni e “contabilità creativa”.

Finanza climatica, carbon offset e la sfida della trasparenza

A complicare ulteriormente il quadro è l’uso crescente dei crediti di carbonio internazionali previsti dall’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi., che prevedono che un Paese possa “compensare” parte delle proprie emissioni pagando per progetti di riduzione delle emissioni in altri Paesi (come riforestazione, energie rinnovabili, ecc.). Questo strumento è pensato per aumentare l’ambizione complessiva, permettendo riduzioni aggiuntive, non per evitare interventi diretti sul proprio territorio. Tuttavia, sta accadendo il contrario: alcuni governi stanno cercando di usare questi crediti per sostituire azioni domestiche difficili o costose, invece di integrarle. Nel caso dell’Unione Europea, la situazione è delicata. Le normative europee attuali stabiliscono che gli obiettivi al 2030 e la neutralità climatica al 2050 devono essere raggiunti senza ricorrere a compensazioni internazionali. Tuttavia, alcuni Stati membri stanno facendo pressione per cambiare le regole, e includere gli offset nei target post-2030.

Il caso della Svizzera è emblematico. La mancanza di chiarezza su quale quota delle riduzioni sarà ottenuta a livello nazionale e quale tramite crediti internazionali rende praticamente impossibile valutare la portata reale degli impegni climatici assunti.

Nel frattempo, le proiezioni del CAT restano ferme da tre anni: senza un cambio radicale di traiettoria, il mondo si dirige verso un riscaldamento di 2,7°C entro il 2100. Il rischio che le temperature superino 1,5°C già all’inizio degli anni ’30 diventa sempre più concreto.

Ma il tempo per invertire la rotta c’è ancora. Le rinnovabili stanno crescendo a ritmo esponenziale e gli investimenti in energia pulita hanno finalmente superato quelli nei combustibili fossili. Serve però un’accelerazione decisa sul fronte degli obiettivi climatici, accompagnata da trasparenza e maggiore solidarietà internazionale.

Il CAT ha pubblicato report dettagliati su sette Paesi chiave, tra cui Cina, India, Brasile e UE, per offrire indicazioni su come allineare le future NDC a un percorso coerente con 1,5°C. “Ogni decimo di grado conta”, ricorda il report. E ogni anno perso rende più difficile recuperare.

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