Il Covid frena la lotta alla plastica: la denuncia del WWF

Quando parliamo di plastica facciamo riferimento a un materiale che può essere considerato recente e moderno. A partire dalle prime sperimentazioni basate sull’utilizzo di fenolo e formaldeide, la corsa all’evoluzione del materiale plastico non si è arrestata e le generazioni che si sono susseguite dagli inizi del ‘900 ad oggi hanno contribuito sempre più alla diffusione incontrollata di questo materiale tanto pratico quanto dannoso. Le conseguenze di questa diffusione mal gestita si trovano oggi sotto gli occhi di tutti e stanno lentamente cambiando le sorti del nostro pianeta, arrecando danni notevoli all’ecosistema e, di conseguenza, alla salute dell’uomo. A rendere ancora più drammatica la situazione nell’ultimo anno e mezzo la crisi sanitaria indotta dalla diffusione del Covid, che ha spostato su di sé i riflettori e ha frenato le lotte alla diffusione di rifiuti plastici.

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Inquinamento marino da plasticaIndice:

Quello che doveva essere il biennio della svolta si è rivelato, purtroppo, un periodo di stallo. La lotta al Covid ha, infatti, sorpassato quella alla diffusione dei rifiuti plastici che è slittata in fondo alla lista delle cose da fare e presto dovrà fare i conti con un nuovo nemico: 7 miliardi di mascherine monouso usate quotidianamente e disperse nell’ambiente, con gravissime conseguenze sulle specie animali.

Tra le specie che risentono maggiormente dell’inquinamento da mascherine troviamo sicuramente le tartarughe marine, già messe a dura prova da un quantitativo di rifiuti plastici pari a 2 miliardi di tonnellate accumulati ogni anno. Una quantità enorme che potrebbe crescere del 70% entro il 2050.

L’allarme è lanciato dal WWF Italia attraverso il suo ultimo paper “La lotta al Covid frena quella all’inquinamento da plastica” in cui si approfondisce la questione a oltre un anno dall’inizio della pandemia.

Situazione attuale, tra difficoltà e normative

Le preoccupazioni legate alla diffusione dei rifiuti plastici crescono costantemente, nonostante si registri un leggero calo nella produzione di plastica in UE, anno dopo anno. Un calo che, però, non è sufficiente a porre rimedio a decenni di politiche assenti, consumi irresponsabili e noncuranza nei confronti del pianeta.Una pila di rifiuti plastici cambia l'immagine del paesaggioAd oggi la plastica è ancora troppa e smaltirla è davvero faticoso. Si pensi che nel 2019 ne sono state prodotte ben 57,9 milioni di tonnellate, di cui il 40% è costituito da imballaggi.

Dati allarmanti che hanno spinto l’UE a varare la cosiddetta Plastic Tax, entrata in vigore da gennaio 2021 e da luglio in Italia, e a bandire dal mercato piatti, posate e cannucce di plastica. L’entrata in vigore della Direttiva (UE) 2019/904 punta, infatti, all’eliminazione dell’usa e getta e all’adozione di un’economia circolare dei consumi.

Gli effetti del Covid sulla diffusione dei rifiuti plastici

I danni causati dalle mascherine usa e getta

Tra le difficoltà emerse a causa della pandemia spicca l’enorme problema delle mascherine usa e getta, realizzate in fibre plastiche e utilizzate quotidianamente in tutto il mondo, con le quali l’ambiente sta già facendo i conti. La sola UE ne consuma circa 900 milioni al giorno e, come se non bastasse, essendo costituite da plastica composita e potenzialmente infette, non possono essere avviate al recupero e al riciclo.

Nessuno vuole mettere in discussione la necessità di utilizzare tali protezioni, ma ancora una volta è la mal gestione a creare problemi. La dispersione di questi usa e getta alimenta il dramma dei rifiuti plastici e contribuisce in maniera sostanziale ad inquinare e soffocare oceani ed ecosistemi terrestri.

Se una parte delle mascherine gettate nell’ambiente tende a galleggiare, un’altra buona parte affonda o resta sospesa a tutte le profondità, compromettendo la vita di pesci, tartarughe, mammiferi marini e uccelli che le ingeriscono intere o rimangono impigliate negli elastici senza via di fuga.

A tutto ciò, si aggiunge il fatto che la mascherina dopo poche settimane di permanenza nell’ambiente si frammenta in microfibre, con il rischio di rilasciare sostanze chimiche tossiche e microrganismi patogeni.

La diffusione del delivery e del take away

Come ben sappiamo la pandemia ci ha costretti per la maggior parte del tempo all’interno delle nostre abitazioni, spingendoci a sfruttare sempre più servizi come il delivery e ad incrementare, di conseguenza, la produzione di imballaggi. Come se non bastasse, i brevi periodi di allentamento delle misure consentivano solamente servizi di take away, favorendo l’utilizzo dell’usa e getta.

Una delle cause dell’aumento di rifiuti plastici in periodo Covid è proprio da ricercarsi nel cambio delle abitudini di acquisto. Nel periodo antecedente la pandemia si stimava un consumo di prodotti confezionati, rispetto allo sfuso, pari al 40-45%, a differenza del 60% attuale. Un cambio di rotta segnato non solo dalla scelta di prediligere acquisti online per una questione di comodità, ma anche dalla convinzione che i prodotti confezionati siano più sicuri da un punto di vista igienico, sebbene ad oggi non sia stato segnalato alcun caso di trasmissione del virus attraverso il consumo di alimenti.

Diversamente, alcuni studi hanno dimostrato come il SARS-CoV-2 sopravviva sulla plastica per ben 7 giorni, ma non è dimostrata la trasmissione dell’infezione da imballaggi contaminati.


09/07/2020

Come si è diffusa la plastica negli anni

Ci troviamo agli inizi del ‘900 quando prendono il via le prime sperimentazioni che vedono nascere la resina termoindurente di origine sintetica, il polivinilcloruro, meglio detto PVC, e il Cellophane, fino a realizzare, con la seconda guerra mondiale, una vera e propria industria moderna della plastica in cui il petrolio assume un ruolo fondamentale per la produzione.

Un destino già segnato quello della plastica che, dopo aver soddisfatto pienamente la richiesta di prodotti necessari in tempo di guerra, sopperendo alle necessità che non potevano essere esaudite dai prodotti naturali, inizia ad assumere un ruolo fondamentale per la popolazione civile una volta terminato il conflitto.

Sono gli anni ’60 a segnare il definitivo affermarsi dell’uso di questa materia che, da quel momento, inizia ad entrare nelle case permettendo a masse sempre più vaste di accedere a consumi prima riservati a pochi privilegiati.

Gli sviluppi dei decenni successivi li conosciamo bene, segnati da una grande crescita tecnologica e dal diffondersi di una quantità spropositata di beni che hanno permesso alla plastica di occupare ogni angolo del nostro Pianeta, insinuandosi nelle rocce, destabilizzando l’ecosistema marino e ritornando a noi anche attraverso la caduta di pioggia e neve sul suolo.

Pioggia di plastica: la denuncia del WWF

Se la maggior parte delle preoccupazioni riguardavano lo stato di salute degli oceani, ora dobbiamo fare i conti con una triste scoperta che ha rivelato la presenza di frammenti plastici nella stratigrafia delle rocce.

Ecco che la plastica inizia lentamente a divenire parte integrante dell’ecosistema terrestre, insinuandosi in modo permanente negli elementi della natura.

A denunciare questa situazione è il WWF, nell’ambito della seconda puntata del report “Plastica-una storia infinita”, iniziativa organizzata con cadenza settimanale per trattare i temi dell’inquinamento da plastica e proporre eventi di pulizia sul territorio.

Ciò che emerge da un recente studio è lo sviluppo di processi geologici che hanno iniziato a incorporare in rocce litoranee la plastica finita in mare, rendendola di fatto un tecnofossile destinato a permanere negli strati geologici al pari di ciò che oggi osserviamo nei sedimenti come testimonianza delle ere passate.

Ma non è tutto. Ad incrementare le preoccupazioni è la capacità delle perturbazioni atmosferiche di trasportare gli inquinanti prodotti dall’uomo anche nei luoghi più remoti, contaminandoli irrimediabilmente.

Uno studio condotto recentemente, dal titolo “Sta piovendo plastica”, ha riscontrato la presenza di un’enorme quantità di microplastiche e microfibre di plastica presenti nell’atmosfera, analizzando campioni di acqua piovana nella zona delle Montagne Rocciose e registrando tracce anche nelle cime oltre i 3000 metri di altezza.

E lo scenario non si limita a una zona circoscritta, ma interessa ogni parte del pianeta, popolata e non; dall’Europa, in cui ad aprile del 2019 si è scoperta la presenza di enormi quantità di minuscole particelle plastiche piovute dal cielo in una remota località montana dei Pirenei francesi, all’America, in particolare sullo stretto di Fram tra le isole Svalbard e la Groenlandia, sul quale un gruppo di scienziati tedeschi e svizzeri ha trovato resti di plastica e gomma caduti attraverso la neve.

La quantità di microplastiche che attraverso la neve riescono a raggiungere i tratti di mare ghiacciati è sconcertante, parliamo di concentrazioni di 10mila frammenti per litro di cui fanno parte resti di pneumatici, vernici e fibre sintetiche.

La ricerca più recente risale allo scorso giugno e ha evidenziato la presenza di microplastiche nel 90% dei campioni di acqua superficiale e di zooplancton e nell’85% dei campioni di sedimento nell’Artico canadese.

La scarsa popolosità di queste zone ha chiarito come le microplastiche abbiano iniziato ad invadere la Terra attraverso il trasporto a lunga distanza, operato tramite le correnti atmosferiche e oceaniche.

Plastica in mare
Credit ©WWF

Il WWF continua ad impegnarsi senza sosta nella lotta all’inquinamento, operando a livello globale un’azione di pressione sui governi affinché venga raggiunto un accordo vincolante che imponga regole e impegni atti ad impedire la continua immissione di plastica nell’ambiente.

La petizione globale lanciata dal WWF ha già raggiunto oltre un milione e 760 mila cittadini e, dopo lo stop causato dall’emergenza sanitaria che ha coinvolto intere nazioni in tutto il mondo, a settembre ripartiranno gli appuntamenti internazionali e le azioni volte ad incentivare lo sviluppo di un sistema #plasticfree.

Nel frattempo prosegue il Tour Spiagge Plastic Free del WWF Italia, avviato nell’ambito della campagna GenerAzioneMare, che vede molti volontari dell’Associazione impegnati nell’azione di pulizia di alcuni tratti costieri, con la collaborazione entusiasta dei cittadini.

Il rapporto di Greenpeace: plastica liquida nei detergenti

Un nuovo rapporto di Greenpeace, titolato Plastica liquida: l’ultimo trucco per avvelenare il nostro mare”, ha portato alla luce un’altra allarmante scoperta: le aziende produttrici di detergenti per bucato, superfici e stoviglie utilizzano plastica liquida, semisolida o solubile tra gli ingredienti.Analisi di laboratorio dei detergenti italianiNon finiscono mai le sorprese in materia di inquinamento e il mercato italiano dei prodotti per la pulizia della casa si scopre invaso da sostanze plastiche.

Il risultato? Un contributo aggiuntivo allo sversamento di microplastiche nel mare con annessi ringraziamenti dell’ecosistema marino che non sa più “che pesci pigliare” per sopravvivere.

Il rapporto di Greenpeace è stato elaborato grazie a indagini online sulle pagine web ufficiali delle principali aziende di detergenti in Italia e attraverso indagini di laboratorio che hanno verificato e confermato la presenza di microplastiche nei prodotti in forma solida.

A conferma di tutto ciò l’ammissione da parte delle aziende che, interpellate da Greenpeace, hanno confermato l’uso di plastiche come ingredienti dei detergenti, la maggior parte delle quali in formato liquido, semisolido o solubile.

Dei 1.819 prodotti controllati sul web, 427 contengono almeno un ingrediente in plastica.

Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace, ha dichiarato: “Ogni giorno attraverso l’uso di detergenti per il bucato, le superfici e le stoviglie rilasciamo materie plastiche nell’ambiente e nel mare e per gran parte di queste – le plastiche in forma liquida e semisolida – non conosciamo ancora gli impatti ambientali. I nostri mari già soffocano per via dell’inquinamento da plastica solida, oggi scopriamo una nuova potenziale minaccia per l’ecosistema più grande del Pianeta. Le aziende hanno già trovato il modo per aggirare l’imminente proposta dell’ECHA sulle microplastiche solide ricorrendo alla plastica liquida o semisolida, continuando così a fare profitti a scapito del Pianeta”.

Dal 2018 l’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA) sta lavorando a una proposta di restrizione per vietare l’utilizzo di microplastiche aggiunte intenzionalmente in numerosi prodotti di uso comune, tra cui cosmetici, detergenti, vernici e fertilizzanti.

L’iniziativa è lodevole, ma la proposta attende di essere inserita nel regolamento europeo REACH e, se approvata, porterebbe a una riduzione del rilascio nell’ambiente di oltre 40 mila tonnellate di plastica ogni anno.

Non ci resta che sperare che i tempi di intervento si accorcino; nel frattempo l’unica cosa che tende ad accorciarsi sembra essere la sopravvivenza dell’ecosistema che ci ha permesso di vivere fino ad oggi e che, probabilmente, col tempo, sarà in grado di ritrovare un suo equilibro, ma che ne sarà di noi?

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