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Indice degli argomenti: Unità collabenti e normativa catastale Come si accatasta un edificio nella categoria F/2 delle unità collabenti? Quanti sono i fabbricati collabenti e dove si trovano in Italia Un fabbricato collabente è soggetto all’Imu e alla Tasi? Le detrazioni fiscali per ristrutturare le unità collabenti e Superbonus La definizione di unità collabente è individuata in modo chiaro a livello normativo e fa riferimento a tutti quegli immobili che, fondamentalmente, non possono essere abitati o utilizzati. Un’unità collabente, quindi, è un immobile che si trova in condizioni tali da non produrre reddito. Questo significa che un’unità collabente è, ad esempio, un edificio non agibile o allo stato di rudere. Le condizioni di questi fabbricati sono fatiscenti e molto spesso la loro struttura non è conservata integralmente, con la copertura o parti delle murature crollate. Questi “immobili diroccati”, per poter essere convertiti in altro e riutilizzati nuovamente, devono essere sottoposti a ingenti interventi di ristrutturazione, in quanto una normale manutenzione ordinaria, ma anche straordinaria, non può essere sufficiente. Unità collabenti e normativa catastale Il Decreto Ministeriale n. 28 del 2 gennaio del 1998 reca le norme in materia di costituzione del catasto dei fabbricati. L’articolo 2 del decreto dà una prima indicazione rispetto l’unità immobiliare e prosegue poi indicando che “ai soli fini della identificazione possono formare oggetto di iscrizione in catasto, senza attribuzione di rendita catastale, ma con descrizione dei caratteri specifici e della destinazione d’uso” anche le “costruzioni inidonee ad utilizzazioni produttive di reddito, a causa dell’accentuato livello di degrado. Si parla in particolare dei seguenti immobili: a) fabbricati o loro porzioni in corso di costruzione o di definizione; b) costruzioni inidonee ad utilizzazioni produttive di reddito, a causa dell’accentuato livello di degrado; c) lastrici solari; d) aree urbane. Per cui, diventano oggetto di iscrizione catastale anche tutti i fabbricati collabenti, come unità immobiliari non idonee ad utilizzi che producano reddito. Quindi, anche senza che sia ad essi attribuita una rendita catastale, è necessario censirli e descriverne le caratteristiche. Sono esclusi solo i manufatti che non è possibile delimitare o perimetrare. Nello specifico, gli immobili collabenti sono definiti con la categoria F/2 “Unità collabenti – fabbricati fatiscenti, ruderi, unità con tetto crollato e inutilizzabili”. Come si accatasta un edificio nella categoria F/2 delle unità collabenti? Per accatastare un edificio come unità collabente è necessario rispettare un preciso iter burocratico. Se si tratta di edifici che in precedenza erano accatastati in altre categorie e che, solo con il passare del tempo, versano in condizioni tali da risultare unità collabenti, è necessario fare una doppia operazione. Infatti, non si tratta di un semplice declassamento, ma piuttosto di una sospensione della precedente unità e un successivo nuovo accatastamento. Per effettuare la dichiarazione e l’iscrizione al catasto di un fabbricato collabente è necessario presentare della documentazione predisposta da un professionista, che contenga una dichiarazione e una relazione (con data e firma) a testimonianza dello stato del fabbricato collabente. Ad esse deve essere allegata anche la documentazione fotografica necessaria a mostrare lo stato del fabbricato, oltre ad un’autodichiarazione del proprietario rispetto la mancanza di allacciamento ai servizi primari, quali acqua, gas ed elettricità. Per l’accatastamento dei fabbricati collabenti, infine, non vengono mai richieste planimetrie di alcun genere. Va specificato, però, che non possono essere accatastati in questo modo i manufatti che non sono individuabili e perimetrabili, quindi sono esclusi i casi in cui ad esempio manchi completamente la copertura o in cui i muri perimetrali non superino il metro di altezza. Quanti sono i fabbricati collabenti e dove si trovano in Italia In un osservatorio dell’Agenzia delle Entrate del 2019 è stato analizzato il numero e l’andamento dell’accatastamento di unità collabenti in Italia. In particolare, i dati si concentrano sul periodo 2011-2018, nel quale emerge un graduale aumento del numero di fabbricati accatastati come unità collabenti. Questa crescita dipende, secondo il documento, anche dall’aumento della pressione fiscale sugli immobili, seguita all’introduzione dell’IMU. Come anticipato, un immobile collabente, non generando reddito, è anche esente dal pagamento delle tasse, come vedremo meglio in seguito. Alla fine del 2018 le unità accatastate in categoria F/2 sono 548.148 e corrispondono a circa lo 0,8% del patrimonio immobiliare. In merito alla distribuzione delle unità collabenti, il 32% si trova al Nord, il 20% nel Centro Italia, il 32% al Sud e il 16% sulle Isole. Un’ipotesi che emerge dall’osservatorio è che la maggior concentrazione delle unità collabenti nel Centro-Sud dipenda anche da una differente disponibilità economica per la riqualificazione di questi fabbricati, che richiede talvolta investimenti ingenti. Se, invece, il ragionamento si sposta sul piano regionale, emerge che è la Valle d’Aosta la regione con il peso % maggiore delle unità collabenti sullo stock immobiliare, che supera la media nazionale e raggiunge il 3,1%. Un fabbricato collabente è soggetto all’Imu e alla Tasi? Quando un immobile viene riconosciuto come un fabbricato collabente, e quindi non produttivo di reddito, le conseguenze si riversano anche sul piano fiscale. Per questo motivo, generalmente, non risulta essere soggetto al pagamento di tasse come Imu e Tasi. Eventuali eccezioni possono essere riscontrate in alcuni comuni in cui, nel chiedere il versamento delle imposte, si fa riferimento all’area su cui sorge il fabbricato, che può essere considerata come area edificabile e di conseguenza essere sottoposta al corrispettivo regime impositivo. Un secondo aspetto proprio degli immobili collabenti è il loro essere esonerati dall’obbligo di presentare una serie di documentazione al momento di compravendita. La legge prevede, infatti, che in queste circostanze siano disponibili l’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione di conformità di quanto depositato in catasto rispetto allo stato di fatto. Come intervenire e ristrutturare le unità collabenti Le unità collabenti possono essere opportunamente ristrutturate, dando loro una seconda vita. Da un punto di vista tecnico e amministrativo, però, la classificazione degli interventi dipende dalla “storia” dell’edificio in questione. Le principali possibilità sono due. Nel caso in cui l’edificio sia in rovina, ma non sia mai stato completato, le opere necessarie alla riqualificazione dell’immobile non sono classificate come “ristrutturazione edilizia”. In queste circostanze, infatti, è necessario un permesso di costruire, come per tutti gli interventi di nuova costruzione. Se, invece, un edificio è in rovina, ma è stato inizialmente completato ed eventualmente anche utilizzato gli interventi eseguiti sul rudere rientrano nelle opere di “ristrutturazione edilizia”, per cui è necessario presentare una SCIA. Chiaramente, lo stato originario deve poter essere dimostrato. La differenza tra le due tipologie di intervento è chiara se si fa riferimento alla stessa definizione di “ristrutturazione edilizia”, che contempla anche interventi di demolizione e ricostruzione: “interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”. Le detrazioni fiscali per ristrutturare le unità collabenti Le unità collabenti, quando vengono ristrutturate, danno diritto di accesso alle detrazioni fiscali, ma ad alcune condizioni. La prima è relativa alla natura degli interventi che si vogliono detrarre, che devono effettivamente rientrare nelle opere di ristrutturazione. In altre parole, ricadano nel secondo dei due casi visti nel precedente paragrafo, ossia interventi su un edificio che, per quanto ora si trovi in rovina, è stato a suo tempo ultimato. In ogni caso, però, si tratta di edificio esistente. Se anziché alle detrazioni per la ristrutturazione si vuole accedere alle detrazioni per la riqualificazione energetica, allora è necessario che ci sia già un impianto, anche se non funzionante. Questo, infatti, è un requisito dell’Ecobonus. Ma cosa significa impianto termico esistente? Come approfondito in questo articolo, la definizione di impianto termico è contenuta del D.Lgs 48/2020 e specifica che si tratta di soluzioni tecnologiche fisse destinate alla climatizzazione degli ambienti. Sono esclusi tutti gli impianti per la sola produzione di acqua calda sanitaria. Con questa revisione, quindi, sono considerati impianti termici anche le stufe a legna, i termocamini o le stufe a pellet. Esistente, significa che teoricamente dovrebbe poter essere rimesso in funzione, seppure con opportuni interventi di ripristino. Il Superbonus per le unità collabenti L’opportunità più vantaggiosa per le unità collabenti è, ad oggi, quella di accedere al Superbonus 110%, tanto che l’art. 119 del Decreto Rilancio fa proprio riferimento a questa tipologia di edifici. Sono diverse le risposte dell’Agenzia delle Entrate agli interpelli relativi a possibili interventi su questi fabbricati, che ne confermano la fattibilità. Ne sono un esempio l’interpello numero 592 di settembre 2021 o il n. 17 di gennaio 2021. Purché le opere di demolizione e ricostruzione rientrino in quelle classificate come opere di ristrutturazione (e quindi non si tratti di nuova costruzione), sono ammesse sia le spese per la riqualificazione energetica, che per la messa in sicurezza sismica. Per quanto riguarda gli interventi di sicurezza sismica, possono essere detratti anche in caso di cambio di forma, volume e aspetto, con una spesa massima di 96.000 euro. Una nota specifica, per quanto riguarda sagoma, prospetti e caratteristiche, invece, riguarda gli edifici che ricadono in contesti storici e tutelati, dove gli interventi di demolizione e ricostruzione sono considerati ristrutturazioni solo se vengono conservate le caratteristiche originarie. Ultimo caso interessante, riguarda la possibilità di trasformare ruderi non residenziali in abitazioni, come ad esempio stalle e depositi in case, approfittando del Superbonus. Infatti, i lavori necessari alla riduzione del rischio sismico sono ammessi comunque, a condizione che l’intervento abbia proprio lo scopo di attuare un cambio di destinazione d’uso, adeguatamente autorizzato mediante provvedimento amministrativo. Nel caso degli interventi di riqualificazione energetica, poi, non sono ammessi ampliamenti di volumetria e, come detto per l’Ecobonus, deve essere presente (anche se non funzionante) un impianto. In questi casi, si va in deroga all’obbligo di APE antecedente gli interventi, impossibile da ottenere nel caso in cui manchino copertura o parte dei muri perimetrali, ma è essenziale che la costruzione finale risulti almeno in classe A. Prima pubblicazione 2019 – Articolo aggiornato Consiglia questo approfondimento ai tuoi amici Commenta questo approfondimento
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