New York e l’identità del presente: le trasformazioni dello spazio pubblico nella bigness

A New York la bigness è leggibile a diversi livelli di osservazione e approfondimento, sia nei pieni che nei vuoti urbani. L’area di Times Square, illuminata a giorno dagli schermi a qualsiasi ora. La griglia urbana e la scala degli edifici di New York, che si sviluppano prevalentemente in altezza.

New York e l’identità del presente: le trasformazioni dello spazio pubblico nella bigness

Il dinamismo di una città senza passato

“The present in New York is so powerful that the past is lost” (John Jay Chapman).

“Il presente di New York è così poderoso che il passato si perde”, scriveva il poeta e drammaturgo americano John Jay Chapman già nel 1909, quando l’attuale realtà metropolitana era ancora alle sue origini. La frenesia che la caratterizza e la sua attitudine a gettare continuamente il passato alle spalle, infatti, fanno sì che nell’immaginario collettivo essa si presenti come immersa in un eterno presente, il quale viene rilesso nella sua dimensione sociale, architettonica e urbana.

Sebbene la storia di quella che oggi riconosciamo come metropoli internazionale abbia avuto inizio poco più di un secolo fa, New York è una delle città più raccontate, fotografate e studiate al mondo: le sue contraddizioni e il suo dinamismo hanno affascinato poeti, architetti e intellettuali di diverse generazioni.

Come osserva Corrado Augias, nel descrivere la capacità di New York di trasformarsi e riaffermarsi continuamente su sé stessa, “per decenni la città è stata demolita e ricostruita con furia, interi quartieri sono decaduti o, al contrario, sono risorti, intere zone hanno mutato fisionomia e abitanti, gli stessi edifici sacri quando non sono stati abbattuti hanno cambiato genere di culto e fedeli, trasformandosi da sinagoghe in chiese cristiane, da chiese cristiane in moschee. Questa frenesia ha tolto di mezzo non solo gli spazi architettonici, ma la stessa memoria che a questi spazi era legata, poiché le città vivono anche nel nesso tra gli ambienti, gli edifici, gli arredi e l’immaterialità di tutto ciò che vi palpita attorno”.

Questo aspetto si è verificato principalmente a causa della mancanza tra gli abitanti di un fondamento culturale comune, dovuto all’insistenza improvvisa sullo stesso territorio di culture distanti tra loro che, nell’insieme, non si sono riconosciute in un’unica identità condivisa.

L’energia e il fascino della New York contemporanea, tuttavia, risultano proprio dall’aver saputo trasformare l’assenza di stratificazioni storiche, in contrapposizione alle origini consolidate di città e stati europei, in un punto di forza che, nel suo essere effimero, è elemento peculiare e di riconoscibilità della città stessa.

Un’area che, all’interno del tessuto, meglio di altre rappresenta il continuo rinnovamento del presente newyorkese, è Times Square. Situata nell’area commerciale di Midtown Manhattan (dodici strade parallele a sud di Central Park) e generata dall’incontro della Seventh Avenue con Broadway, la “square” (piazza, nel significato americano del termine) rappresenta una delle intersezioni più frequentate del distretto, in cui i flussi di mezzi e persone rimangono invariati a qualsiasi ora della giornata. Dalla quota stradale è difficile percepire le proporzioni dei volumi costruiti che insistono su di essa, in quanto le chiusure verticali degli edifici sono costituite da schermi led che fanno fluire ininterrottamente immagini pubblicitarie di dimensioni e cromie differenti. In questo modo, per ogni frammento di tempo, le superfici perimetrali del vuoto urbano generano un landmark immateriale che risulta sempre diverso da quello dell’istante precedente.

L’area di Times Square, illuminata a giorno dagli schermi anche durante le ore notturne, non esaurisce mai la propria energia, senza possibilità che gli attimi divenuti passato riescano a sedimentarsi nella memoria.

L’iper-densità, nell’accezione espressa da Rem Koolhaas nel manifesto retroattivo per Manhattan Delirious New York (1978), con cui la città ha dovuto confrontarsi all’inizio del Novecento a causa dell’approdo incontrollato nella penisola di Manhattan di immigrati provenienti da tutta Europa, ha avuto come esito morfologico il diffondersi dei grattacieli, ovvero lo sviluppo del tessuto urbano in altezza.

Questo aspetto, in particolare, si è configurato come motivo di studio -tra gli altri Maestri- di Le Corbusier, il quale aveva già teorizzato la così definita città verticale come soluzione abitativa ideale per piani urbanistici destinati all’insediamento di oltre tre milioni di abitanti.

Nell’apprezzare l’imporsi un paradigma di modernità, inoltre, in questa porta verso il nuovo mondo (“città di speranze senza speranza”), egli ha espresso il suo punto di vista scrivendo: “A hundred times I have thought: New York is a catastrophe, and fifty times: it is a beautiful catastrophe” (“cento volte ho pensato che New York è una catastrofe e cinquanta volte che è una bellissima catastrofe”).

L'area di Times Square a New York

Times Square, l’iconica intersezione newyorkese tra Broadway e la 7th Avenue, nell’area della Midtown North a Manhattan. Gli schermi pubblicitari che rivestono le facciate degli edifici concorrono a definire un landmark immateriale in diretto contatto con i fruitori dell’area. Foto di Sara Codarin.

Bigness e griglia urbana

L’area metropolitana di New York è organizzata -per interessi economici e di spartizione territoriale- in modo rigoroso. Contrariamente alle dinamiche caratteristiche delle città storiche, le strade (perpendicolari tra loro e stese lungo gli assi nord-sud ed est-ovest) rappresentano elementi invarianti che impongono le direzioni di sviluppo della città e gli allineamenti entro i quali possono essere eretti gli edifici. Attraverso il tema della griglia, infatti, in origine è stato possibile attribuire alla città una forma definita e uno schema di espansione prevedibile.

Questo sistema, tipico delle città di recente fondazione, è elemento di discussione ricorrente in Delirious New York, in particolare per quanto riguarda la sua valenza culturale: “la griglia è soprattutto una speculazione concettuale. A dispetto della sua neutralità apparente, essa sottende un programma intellettuale per l’isola: nella propria indifferenza alla topografia, a quanto esiste, rivendica la superiorità della costruzione mentale sulla realtà”.

La costruzione mentale che prevale sui caratteri propri del contesto implica che la sua ambizione si riveli in un totale assoggettamento della natura, che viene trattata come elemento di costruzione marginale, di non-importanza gerarchica, equiparabile ad un “vano tecnico” urbano.

La disamina di Koolhaas sulla struttura di New York prosegue con una presa d’atto che “tutti gli isolati sono uguali e la loro equivalenza invalida, in un solo momento, qualsiasi sistema di articolazione e differenziazione che in passato abbia guidato la progettazione delle città tradizionali. La griglia liquida la storia dell’architettura e tutte le precedenti lezioni di urbanistica”.

Tuttavia, anche in tema della griglia offre spunti interessanti, soprattutto se si osserva in rapporto alla geometria dei flussi di auto e mezzi fuori terra. Il ritmo alternato del movimento veicolare (generalmente a senso unico nelle streets e doppio senso nelle avenue) definisce un susseguirsi ininterrotto di schemi simmetrici, secondo un abaco di configurazioni i cui elementi della composizione sono edifici, veicoli e persone disposti in relazione alla corsia stradale che funge da elemento ordinatore dello spazio, facilitandone la lettura.

Si può dire che “la disciplina bidimensionale della griglia”, infatti, “origina anche una libertà insperata per un’anarchia tridimensionale. La griglia determina un nuovo equilibrio tra libertà e controllo, grazie al quale la città può essere contemporaneamente ordinata e fluida, una metropoli dal caos rigoroso” (Koolhaas, 1978).

I flussi veicolari a New York definiscono geometrie simmetriche all’interno del tessuto I flussi veicolari all’interno di New York definiscono geometrie simmetriche all’interno del tessuto. Lo schema tipico che risulta da queste composizioni dinamiche è composto dalla corsia stradale che rappresenta un asse di simmetria quale elemento ordinatore di edifici, auto, persone nello spazio. Foto di Sara Codarin.

 

La griglia di New York, oltre a controllare il caos deve anche confrontarsi la morfologia di edifici il cui sviluppo dimensionale prevalente avviene in altezza. Questo salto di scala rispetto alle proporzioni delle città antecedenti al ventesimo secolo, nella teorizzazione esposta in Junkspace (saggio diffuso da Rem Koolhaas che prende in esame le forze -apparentemente- ingovernabili che regolano lo spazio nelle città) assume la definizione di bigness, che può essere riassunta in cinque teoremi:

1.“Superata una certa massa critica, un edificio diventa un Grande Edificio. Una tale mole non riesce più ad essere controllata da un solo gesto architettonico, e nemmeno da una qualsivoglia combinazione di gesti architettonici (…)”.

2.“L’ascensore –con la sua possibilità di creare collegamenti meccanici anziché architettonici- (…) annullano e svuotano il repertorio classico dell’architettura. Questioni di composizione, scala metrica, proporzioni, dettaglio sono ormai accademiche”.

3.“Nella bigness, la distanza tra nucleo e involucro cresce al punto che la facciata non può più rivelare ciò che avviene all’interno. L’esigenza umanistica di “onestà” è abbandonata al suo destino: architettura degli interni e architettura degli esterni divengono progetti separati: una confrontandosi con l’instabilità delle esigenze programmatiche e iconografiche, l’altra (…) offrendo alla città l’apparente stabilità di un oggetto”.

4. “Tramite la sola dimensione, tali edifici entrano in una sfera amorale, al di là del bene e del male. Il loro impatto è indipendente dalla loro qualità”.

5. “Tutte insieme, queste rotture -con la scala metrica, con la composizione architettonica, con la tradizione, con la trasparenza, con l’etica- implicano la rottura definitiva, quella radicale: la bigness non è più parte di alcun tessuto”.

A New York la bigness è leggibile a diversi livelli di osservazione e approfondimento, sia nei pieni che nei vuoti urbani. Gli edifici hanno dimensioni e proporzioni molto distanti dalla scala umana e proprio per questo si impongono come barriere tra interno ed esterno (secondo un atteggiamento che è possibile definire “anti democratico”) escludendo ogni possibilità di dialogo e relazione con i fruitori dello spazio pubblico.  La negazione di questa componente di dialogo ha come diretta conseguenza il confinamento fisico del caos urbano nei vuoti della griglia (streets e avenues) dove i flussi si scambiano, incrociano, sovrappongono, collidono, materializzandosi in decibel, folla e inquinamento.

Gli edifici a new York si sviluppano in altezza

La scala degli edifici di New York, ampiamente maggiore rispetto alla dimensione umana, è un aspetto rappresentativo della bigness. Tale caratteristica riguarda anche i collegamenti infrastrutturali, che coincidono con gli assi ordinatori della griglia del tessuto urbano. Foto di Sara Codarin. 

Lo spazio pubblico nella città verticale

Poiché la griglia non permette eccezioni, per quanto riguarda il posizionamento di volumi costruiti o la programmazione di vuoti urbani, il progetto di architettura contemporaneo che vi si innesta deve essere in grado di gestire al contempo le proprie complessità costruttive/compositive e il sovrapporsi della bigness al mosaico ordinato degli isolati newyorkesi.

Da un lato, infatti, la struttura morfologica della città impone un’elevata densità abitativa, dall’altro la forma del tessuto non facilita il ricorso a irregolarità formali (la strada di Broadway è l’unico segmento slegato dallo schema ad assi perpendicolari, che permette di individuare punti notevoli lungo la sua lunghezza, quali Madison Square Park e Union Square).

Nel 1958, Mies Van Der Rohe, confrontandosi con la realizzazione di un grattacielo direzionale a Midtown North (Seagram Building), ha interpretato l’azione progettuale sulla griglia urbana come ricerca di equilibrio tra spazio pubblico e volume costruito: al 375 di Park Avenue, tra la 52 e la 53 strada, l’architetto ha deciso di arretrare l’edificio rispetto al filo della strada, in modo da non saturare interamente il lotto di intervento. Una prima motivazione di tale accorgimento è consistito nella volontà di far percepire alle persone le proporzioni dell’edificio (sollevato su un elegante podio di marmo) dalla giusta distanza; secondariamente, si è deciso di restituire al tessuto stesso un contributo di superficie non costruita, come luogo di sosta e dilatazione dei flussi di utenti in movimento sulla quota stradale.

Questo gesto di “democratizzazione” dello spazio, in antitesi con la definizione “non-etica” della griglia esposta in Junkspace, ha rappresentato un valido tentativo di dialogo con i soggetti fruitori e di evasione dalle regole ordinatrici imposte dalla griglia.

Park Avenue a New York, spazio pubblico progettato da Mies Van Der Rohe

Lo spazio pubblico antistante il Seagram Buinding, progettato da Mies Van Der Rohe a Park Avenue, risultato dall’arretramento dell’edificio rispetto al ilo stradale. Foto di Sara Codarin.

Un’ulteriore strategia utile per trasformare i punti critici della bigness in opportunità qualitative consiste nel definire spazi pubblici, interni o esterni, ad una quota diversa -sollevata- dal piano stradale. Questo può avere luogo, in particolare, laddove non sia possibile ricavare spazio in adiacenza degli edifici, i quali saturano interamente i lotti interclusi fra le strade.

Attualmente, i vuoti urbani più ampi presenti nella griglia di New York si percepiscono come “episodi” all’interno del tessuto, di cui Central Park (un’estesa area verde definita interamente in modo antropico) rappresenta quello principale. A seguire, vi sono altre aree naturali (di scala molto più ridotta e comunque sproporzionate rispetto alla densità del costruito) caratterizzate da un totale distacco (fisico e acustico) dalle dinamiche indistinte dell’ambiente metropolitano.

Per riequilibrare la presenza di tali ambienti protetti dal caos cittadino, risulta dunque efficace sopraelevare taluni spazi (grazie alla possibilità tecnica di deviare -a esempio- i flussi pedonali sull’asse verticale), in modo da aprire alla fruizione pubblica interi piani dei grattacieli, comprese le terrazze di copertura.

New York, spazio pubblico sulla copertura di un grattacielo

Spazio pubblico sulla copertura di un grattacielo: un luogo protetto dal caos cittadino. Foto di Sara Codarin

New York,Terrazzo panoramico sulla copertura del Rockefeller Centre

Terrazzo panoramico sulla copertura del Rockefeller Centre, nel cuore di Manhattan. Da questo punto di osservazione, cambia la percezione dimensionale degli edifici circostanti. Foto di Sara Codarin.

Un esempio rappresentativo di spazio pubblico in quota, secondo un disegno fuori griglia è l’High Line, una linea ferroviaria sopraelevata (utilizzata agli inizi del novecento per il trasporto e la distribuzione di longitudinalmente alla penisola Manhattan), che è stata oggetto di riqualificazione nel 2009 da parte degli architetti Diller Scofidio + Renfro e dallo studio di architettura del paesaggio James Corner Field Operation.

Entrato in disuso negli anni ottanta, il tracciato è stato occasione per la definizione di un parco lineare dalle caratteristiche inedite in cui vi è ancora traccia della ferrovia originaria, che si snoda attraverso i grattacieli, lontano dai flussi veicolari e aperto a turisti e popolazione locale.

Dal quadro esposto, è possibile identificare nel lavoro progettuale sullo spazio pubblico uno strumento adatto per di gestire con flessibilità temi urbani complessi ed eterogenei, con l’obiettivo di definire spazi equilibrati che non vadano in conflitto geometrico/compositivo/morfologico con gli innumerevoli limiti imposti dalle condizioni, in questo caso, della bigness.

Un tratto della High Line, un parco lineare sopraelevato a New York

Un tratto della High Line, un parco lineare sopraelevato risultato dalla riqualificazione di una linea ferroviaria dismessa. Foto di Sara Codarin

Approfondimento realizzato in collaborazione con Architettura>Energia, centro ricerche del Dipartimento Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara.

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