Principio dell’energia: le costruzioni devono ridurre sempre di più il proprio consumo di energie. Parte II: le strategie attive

Le costruzioni possono, e quindi hanno il dovere, di diventare produttori d’energia

Dopo aver approfondito le strategie “passive”, mirate al risparmio pubblichiamo ora un articolo dedicato a quelle “attive”, protese alla produzione energetica.

Con l’espressione energie rinnovabili s’intendono le forme d’energia che non hanno origine fossile (carbone, gas, petrolio) e che, per loro natura, si rigenerano o non sono esauribili. Tra queste possiamo citare quella prodotta dal vento (eolica), dalla radiazione solare (energia solare termica), dalla luce (energia fotovoltaica), dall’acqua (energia idroelettrica), dal terreno (energia geotermica), dalle biomasse, dal moto ondoso e dalle correnti marine.
Lo sfruttamento delle energie rinnovabili trova applicazioni sia a larga scala, sia nell’ambito edilizio, con impianti di diverse dimensioni, molti addirittura di tipo domestico.
In particolare, la radiazione solare è la fonte maggiormente sfruttata, utile sia per la produzione d’acqua calda che di energia elettrica.
Di seguito viene offerta una rapida carrellata delle diverse fonti rinnovabili e delle loro applicazioni pratiche. 

Energia eolica. L’energia eolica è prodotta dall’azione del vento ed è normalmente convertita in energia elettrica attraverso una centrale eolica, dove un aerogeneratore sfrutta la rotazione delle pale spinte dal vento per produrre energia elettrica.
Esistono due tipi di generatori:
ad asse verticale (VAWT – Vertical Axis Wind Turbines), in grado di sopportare venti di elevata intensità e di sfruttarli indipendentemente dalla provenienza (senza doversi auto-orientare). Le taglie di tali generatori variano da una produzione di GigaWatt all’impiego domestico;
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ad asse orizzontale (HAWT – Horizontal Axis Wind Turbines), posizionati sulla sommità di torri in acciaio di altezza variabile, tra i 60 e i 100 m e collegati alle pale (di norma 2 o 3).
In ambito di applicazione domestica, esistono microgeneratori paragonabili a vere e proprie turbine eoliche, capaci di produrre circa 1 kW di energia, sostituendo il normale approvvigionamento dalla rete fino alla soglia massima di potenza e integrandolo una volta superata. I modelli più utilizzati sul mercato, hanno un’altezza variabile da 2 a 4 m e un ingombro delle pale circa pari a 2.5 m
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Requisito indispensabile per la realizzazione di una qualsiasi centrale eolica è la presenza dì venti pressoché costanti, con velocità di almeno 5 m/s.
Per i piccoli impianti casalinghi il prezzo di installazione risulta ancora abbastanza oneroso (circa a 2-3.000 €/kW), dato il mercato ancora poco sviluppato, seppur con notevoli potenzialità di crescita.
Non è possibile soprattutto nel nostro paese, accennare all’energia eolica ignorando le contestazioni relative all’impatto ambientale di una “windfarm”, spesso condivisibili.
I motivi di scontro derivano, per la maggioranza, dalle interazioni con il paesaggio, dato che spesso i luoghi d’installazione più idonei per gli impianti risultano essere le cime delle montagne o delle colline e le coste, cosicché le gigantesche torri a pale risultano facilmente visibili da grande distanza, spesso in luoghi ove l’ambiente naturale è tutelato; non rari, però, sono anche i casi in cui viene recriminato sulle emissioni acustiche degli impianti (peraltro moderate) che in ecosistemi delicati, possono disturbare la fauna presente.
Per gli impianti eolici di tipo domestico, l’impatto ambientale è paragonabile a quello di un’antenna televisiva.

Energia fotovoltaica. Rappresenta il caso di una tecnologia che, nata negli anni ’50 per fornire energia affidabile e inesauribile nell’ambito di programmi spaziali, ha trovato sempre più ampia diffusione per applicazioni terrestri, per l’alimentazione di utenze isolate così come per costituire una alternativa alla fornitura “tradizionale” di energia a mezzo di una rete elettrica.
Un dispositivo fotovoltaico è un apparato in grado di trasformare direttamente la luce solare in energia elettrica, sfruttando il cosiddetto effetto fotoelettrico, basato sulla capacità di alcuni materiali semiconduttori di convertire l’energia della radiazione solare in energia elettrica in corrente continua, ciò senza necessità di parti meccaniche in movimento. Il materiale semiconduttore quasi universalmente impiegato oggi a tale scopo è il silicio. La componente base di un impianto fotovoltaico è la cella fotovoltaica, che è in grado di produrre circa 1,5 W di potenza in condizioni standard, vale a dire quando si trova a una temperatura di 25 °C ed è sottoposta a una potenza della radiazione pari a 1.000 W/m2. La potenza in uscita da un dispositivo fotovoltaico quando esso lavora in condizioni standard, prende il nome di potenza di picco (Wp) ed è un valore che viene usato come riferimento. L’output elettrico reale in esercizio è in realtà minore del valore di picco a causa delle temperature più elevate e dei valori più bassi della radiazione.

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Più celle assemblate e collegate tra loro in un’unica struttura formano il modulo fotovoltaico, di potenza generalmente compresa tra i 30 e i 100 Wp. I moduli, a tensione continua di 12 o 24 V, sono collegati in serie o in parallelo. In caso di richiesta di corrente alternata (caso più comune) è necessario inserire apparecchiature in grado di trasformare la corrente continua in alternata (inverter). Si distinguono:
– impianti fotovoltaici ad isola, che alimentano utenze elettriche isolate da altre fonti energetiche;
– impianti fotovoltaici connessi alla rete, realizzati presso utenze elettriche servite dalla rete nazionale, nella quale hanno anche la possibilità di immettere l’energia elettrica autoprodotta, convertita in corrente alternata e sincronizzata a quella di rete. La potenza nominale di un impianto fotovoltaico, o campo, è misurata sommando i valori di potenza nominale di ciascun modulo fotovoltaico di cui è composto; l’unità di misura usata è il chilowatt di picco (kWp). La superficie occupata da un impianto fotovoltaico per la produzione d’energia elettrica è di circa 7-8 m2 per kWp, considerando la stessa esposta in modo ottimale e non interessata da ombre portate. Il mercato offre i più svariati sistemi di pannelli fotovoltaici, dai classici moduli rigidi ai più attuali sistemi a film sottile, particolarmente indicati per la realizzazione di “solar roof” per coperture piane.
II mercato fotovoltaico mondiale ha conosciuto, negli ultimi anni, un notevole sviluppo, passando dai 45 MWp del 1990 ai 1.900 MWp del 2007

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In Europa gli incrementi più elevati nella potenza installata sono stati senza dubbio quelli della Germania, soprattutto grazie ai programmi di incentivazione da parte dello stato che non solo hanno fornito sussidi per l’installazione di impianti fotovoltaici, ma hanno comprato l’elettricità in eccesso prodotta da tali impianti e riversata in rete a un prezzo molto maggiore di quello di vendita dell’elettricità tradizionale, come a voler “premiare” le caratteristiche ecologicamente compatibili di tale energia.
In Italia, dopo una fase di gran fermento nella prima metà degli anni ’90, in cui l’ENEL installò diverse centrali fotovoltaiche (Serre, nel salernitano, di 3,3 MWp), il mercato ha vissuto un forte rallentamento soprattutto per l’assenza di adeguati meccanismi di promozione. In tempi più recenti, invece, grazie agli incentivi fiscali previsti dal “Conto energia”, gli impianti fotovoltaici connessi alla rete hanno avuto un incremento esponenziale nelle applicazioni, così da rendere plausibile come obiettivo per il 2020, l’incremento da una potenza installata di 37,5 MWp a fine del 2006, a 8.500 MWp (di cui 7.500 MWp negli edifici e 1.000 MWp montati a terra). L’aspetto economico risulta essere il maggior freno alla diffusione dei sistemi fotovoltaici, a causa dell’elevato costo di realizzazione degli impianti, nonostante una buona parte del costo venga ammortizzata, in Italia, per mezzo delle agevolazioni fiscali previste dal “conto energia”. Per quanto invece riguarda l’impatto ambientale, è sempre più diffusa la tendenza di rendere la tecnologia fotovoltaica formalmente integrata, almeno negli edifici in ambiente urbano.

Energia solare termica. Si definisce energia solare termica quella che deriva dalla conversione dell’energia radiante del sole in energia termica, mediante il ricorso a collettori solari, normalmente posti sulle coperture degli edifici o in prossimità di questi. L’applicazione più diffusa di tale sistema consiste nel riscaldamento dell’acqua igienico-sanitaria, anche se l’uso di questa tecnologia si sta estendendo, sempre più frequentemente, ai sistemi di riscaldamento degli ambienti o addirittura ad impieghi per fini produttivi.
II principio di funzionamento si basa sul riscaldamento dell’acqua all’interno dei tubi di un assorbitore, isolato termicamente sul retro e ai lati e protetto superiormente con lastre in vetro. L’acqua, riscaldata dal sole, viene trasferita all’interno dell’accumulo o per mezzo di una pompa di circolazione (circolazione forzata) o sfruttando il principio del termosifone (circolazione naturale). Un impianto domestico destinato al riscaldamento dell’acqua calda sanitaria è costituita da: collettori solari, bollitori per l’accumulo di acqua calda e una eventuale centralina di regolazione.
Il mercato offre svariati tipi di collettori solari:
– collettori piani (i più comuni);
– collettori a tubo vuoto (di forma cilindrica, più costosi ma più efficienti);
– collettori ad accumulo integrato (oltre a riscaldare l’acqua hanno incorporato l’accumulo per l’acqua calda)

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II rendimento dei pannelli solari è aumentato di circa il 30% nell’ultimo decennio, ampliando i campi l’applicazione nell’edilizia, nel terziario e nell’agricoltura: 1 m2 di collettori solari, alle nostre latitudini, è in grado di scaldare a 45-60 °C tra i 40 e i 300 I di acqua in un giorno a seconda dell’efficienza, variabile con le condizioni climatiche e con la tipologia del collettore. Quest’ultima può variare all’interno di un range piuttosto vasto, sia in termini di costo sia di prestazioni. Non trascurabile risulta essere il fatto che un normale sistema domestico a collettori solari termici deve essere considerato, solitamente, come impianto integrativo alle tecnologie tradizionali, data la discontinuità della fonte energetica solare.

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Attualmente il ricorso all’installazione di pannelli solari termici ha avuto un graduale aumento, poiché considerato il modo più semplice ed efficace per ottemperare ai disposti di molte recenti normative regionali, che impongono che un’aliquota del fabbisogno energetico per la produzione di acqua calda sanitaria sia generato da fonti rinnovabili.

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A proposito degli aspetti inerenti all’impatto ambientale, valgono le medesime considerazioni fatte in merito agli impianti fotovoltaici.

Energia solare termodinamica. Nonostante l’applicazione del cosiddetto “solare termodinamico” esuli dagli ambiti propri del mondo dell’edilizia, si ritiene opportuno, per completare il quadro informativo, fare un breve accenno a tale sistema, che consente di produrre energia elettrica attraverso cicli termodinamici lavorando a medie o alte temperature; attraverso specchi parabolici che seguono il movimento del Sole, le radiazioni vengono captate e concentrate in punti prestabiliti dove sono installati collettori che alimentano motori funzionanti a ciclo Stirling o gruppi turbina in grado di produrre energia elettrica. Un’altra tipologia d’impianto solare a concentrazione è quello a specchi parabolici a struttura lineare, che consente l’orientamento monodimensionale (più economico) verso il sole e l’utilizzo di un tubo ricevitore in cui è fatto scorrere un fluido termovettore per il successivo accumulo d’energia in appositi serbatoi.

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Nel 2001 l’ENEA sviluppò il progetto Archimede, volto all’utilizzo di sali fusi anche negli impianti a specchi parabolici a struttura lineare. L’impianto prevede l’impiego di sali fusi che sono accumulati in un serbatoio coibentato alla temperatura di 550 °C. A tale temperatura è possibile immagazzinare energia per 1 kWh equivalente con appena 5 I di sali fusi. Da tale serbatoio i sali sono estratti e utilizzati per produrre vapore surriscaldato e vengono successivamente accumulati in un secondo serbatoio a temperatura più bassa (290 °C). Ciò consente la generazione di vapore in modo svincolato dalla captazione dell’energia solare (di notte o con scarsa insolazione). L’elevata temperatura di lavoro consente la produzione di vapore alla stessa temperatura e pressione di quello utilizzato nelle centrali elettriche a coproduzione (turbina a gas con riutilizzo dei gas di scarico per produrre vapore).

Energia geotermica. La geotermia, nell’accezione originaria, comprende i sistemi mirati allo sfruttamento (ai fini energetici) del calore endogeno della Terra il quale, immagazzinato nella profondità della crosta terrestre, fluisce in superficie attraverso fluidi vettori come acqua e vapore. In un sistema geotermico, l’acqua penetra nel sottosuolo attraverso faglie e/o rocce permeabili formando delle falde sotterranee e, per effetto del calore trasmesso alle rocce da una fonte (ad esempio una massa magmatica), si scalda fino a raggiungere temperature di alcune centinaia di gradi; il fluido (acqua e/o vapore) in queste condizioni risale lungo fratture, dando luogo alle manifestazioni geotermiche. In alcuni casi la risalita può anche essere indotta artificialmente tramite una perforazione meccanica (pozzo geotermico); il fluido così captato, dopo alcuni eventuali trattamenti, è inviato agli impianti di utilizzazione.
In tempi recenti, però, accanto alla geotermia “tradizionale” ha iniziato a diffondersi quella “a bassa entalpia”, rivolta allo sfruttamento del sottosuolo (e non solo, anche laghi, falde freatiche, corsi d’acqua a regime costante) come serbatoio termico dal quale estrarre calore durante la stagione invernale e al quale cederne durante la stagione estiva.
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È quindi possibile affermare che la geotermia si presta sia ad usi diretti sia indiretti.
Nel primo caso ricadono le applicazioni che sfruttano per lo più l’acqua o il vapore naturale proveniente dal sottosuolo, utilizzati sia per la produzione d’energia elettrica (convogliato su turbine collegate ad un alternatore) che come fluido vettore idoneo per il riscaldamento degli ambienti o dell’acqua sanitaria (soprattutto nelle reti di teleriscaldamento a livello “urbano”).
Poiché la temperatura dei fluidi di un impianto di riscaldamento varia tra 50-80 °C per i sistemi a termosifone e tra 35-50 °C per quelli a pannelli radianti, spesso il fluido geotermico si trova a temperature già idonee per l’uso; in altri casi può essere previsto anche il ricorso a sistemi integrativi quali scambiatori di calore, caldaie o pompe di calore.
Nel caso in cui i fluidi naturali raggiungono temperature di 80-100 °C è possibile lo sfruttamento “integrale” della risorsa geotermica, coprendo con la stessa buona parte del fabbisogno energetico anche per il raffrescamento estivo. In questi casi il fluido vettore alimenterà pompe di calore reversibili ad assorbimento, con fluidi appropriati (per esempio, ammoniaca, bromuro di litio).
Altri usi diretti della fonte geotermica sono, infine, rappresentati dall’impiego come “antigelo” del terreno, per il riscaldamento delle serre o, nelle attività industriali, come “calore di processo” utilizzato nel ciclo di produzione.
L’uso indiretto più comune della fonte geotermica nelle applicazioni edilizie è, senza dubbio, quello abbinato alla “pompa di calore” a sonda geotermica, per il quale risultano efficienti anche fluidi a bassa temperatura.
La pompa di calore altro non è che una macchina termica in grado di trasferire il calore da un corpo freddo a uno più caldo, innalzandone la temperatura; essa, in pratica, con dispendio di energia esterna (di qualsiasi natura, elettrica, calore da fonti fossili o rinnovabili), ma comunque con ottimi rendimenti, “estrae” calore da una sorgente a bassa temperatura (sorgente fredda).

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Nel caso delle applicazioni in geotermia, viene sfruttato il fatto che la temperatura del terreno (o dell’acqua di falda, o di un lago) già a pochi metri di profondità, si mantiene grossomodo costante durante l’arco dell’anno; la stabilità della temperatura del terreno (o delle altre masse citate) comporta che durante l’inverno quest’ultimo si trovi a temperature relativamente più calde dell’aria esterna e d’estate, a temperature (anche notevolmente) inferiori.
La pompa di calore, nel periodo invernale, funziona come un comune frigorifero con un ciclo termodinamico così riassunto: la macchina, per mezzo di una sonda in cui circola acqua, preleva calore dal suolo “cedendolo”, per mezzo di un impianto composto da un evaporatore, un compressore e uno scambiatore, all’ambiente che si vuole riscaldare. Durante l’estate, invece, gli apparecchi a pompa di calore “reversibile” (una valvola a quattro vie permette questa funzione) sono in grado di “prelevare” calore dall’ambiente interno (in tal modo raffreddandolo) per “cederlo” al suolo.
Il motivo per cui, in fase di riscaldamento, la pompa di calore si presenta come un sistema che permette di risparmiare energia primaria (combustibile), divenendo così anche economicamente conveniente, risiede nel fatto che la stessa cede all’ambiente da riscaldare sia il calore assorbito dall’ambiente esterno freddo, sia quello corrispondente al lavoro
meccanico del compressore trasformato in calore (che è il solo che effettivamente viene “pagato”). Un esempio di facile comprensione è il seguente: dal funzionamento di una pompa di calore che consuma 1 W (energia pagata dall’utente) si ottengono (ad esempio) 4 W “utili” per il riscaldamento, corrispondenti a 3 W “pompati” all’interno dalla macchina che li ha asportati alla sorgente fredda e 1 W equivalenti a quelli “assorbiti”.
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Il rapporto di cui sopra, tra la quantità di lavoro prodotto rispetto all’energia utilizzata, detto coefficiente di prestazione (COP), in molti casi può raggiungere valori maggiori di 4 e varia secondo diversi fattori, tra cui i più importanti sono: temperatura esterna, temperatura del gas nell’unità interna, temperatura interna. Ovviamente, tanto minore è la differenza tra la temperatura della sorgente fredda e la temperatura ambiente, tanto migliore potrà essere la resa della pompa di calore.
Questo è il motivo che rende fondamentale, in sistemi di questo tipo, la stabilità di temperatura delle “fonti” geotermiche rispetto al variare stagionale delle temperature esterne
Una pompa di calore può funzionare anche con sonde all’aria esterna, ma con rendimenti inferiori dato la maggiore differenza (“delta”) tra la temperatura di progetto e la temperatura di sorgente; molte pompe di calore sono in grado di “estrarre” calore dall’aria esterna a temperature inferiori a 0° C. Il principio di funzionamento è lo stesso delle pompe di calore geotermiche; il minor rendimento è compensato dalla mancata necessità di perforazioni o scavi (con diminuzione dei costi) nelle fasi d’allestimento dell’impianto. Le pompe di calore aria-acqua producono acqua calda per riscaldamento ambienti e per acqua calda per uso sanitario; le pompe di calore aria-aria sono split inverter ottimizzati per il riscaldamento invernale ma possono anche raffrescare gli ambienti.
In paesi quali Svezia, Giappone, Stati Uniti, Svizzera, Germania e Francia, il livello qualitativo/prestazionale degli impianti a pompa di calore geotermica è ormai molto elevato (data anche la diffusione degli impianti), tanto che l’energia geotermica viene sfruttata all’interno di un range molto elevato di temperatura (7÷40 °C); nel nostro paese, in epoca recente, le installazioni hanno avuto un sensibile incremento, attualmente in continua ascesa.

Energia da biomasse. Con il termine biomassa s’identifica genericamente qualsiasi materiale biologico, d’origine animale o vegetale, che può essere impiegato come combustibile per la produzione d’energia, per lo più di tipo termico. L’energia normalmente prodotta è di tipo termico, mentre la produzione simultanea di calore ed energia elettrica si definisce “cogenerazione”. Gli impianti per l’utilizzo delle biomasse possono essere utilizzati in alternativa alle normali caldaie a gas. Sono considerate biomasse: il legno in tutte le sue forme, la paglia, i residui agricoli di tipo fibroso, i rifiuti raccolti a livello urbano e industriale, i vegetali e i fanghi essiccati provenienti da depurazione delle acque o da deiezioni animali. Alcune fonti come la legna non necessitano di subire trattamenti, altre come gli scarti vegetali o i rifiuti urbani devono essere processati in un digestore. Pur risalendo all’antichità, l’impiego delle biomasse come combustibili era decaduto in epoche moderne; in tempi recenti, tuttavia, la sempre più pressante necessità di reperire risorse energetiche “alternative” ne ha fatto riscoprire l’opportunità, anche ad esempio su scala medio-grande, come nel caso della combustione di scarti di lavorazione dell’industria agroalimentare e del legno o, talvolta anche dei rifiuti solidi urbani (questi ultimi però non sempre configurabili come biomassa). La biomassa è usata nei paesi occidentali soprattutto nelle zone montane, ove le distanze tra la zona di produzione delle biomasse e l’impianto di combustione sono solitamente limitate. In Italia esistono alcune centrali di cogenerazione a biomassa, oltre a una gran quantità di caldaie di dimensioni medio-grandi. Impianti di teleriscaldamento a biomassa sono presenti in Val Pusteria e a Dobbiaco.

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Nel nostro paese, attualmente, l’impiego delle biomasse a scopi energetici è in crescita, pur rappresentando, sul totale, valori percentuali molto bassi intorno al 2%.

Energia idroelettrica. Con il termine energia idroelettrica si identifica l’energia prodotta dall’azione dell’acqua in caduta che, azionando delle turbine collegate a un alternatore, produce energia elettrica. La fonte energetica, in questo caso, è costituita dalla corrente dei corsi d’acqua o dall’energia potenziale dell’acqua di un bacino posto sulla sommità di un’altura sovrastante le condotte e la centrale. Attualmente, circa il 16% dell’elettricità mondiale è di origine idroelettrica; in Italia la fonte idroelettrica copre il 12,6% della richiesta energetica complessiva; non si prevedono sviluppi in quanto si è ormai giunti alla saturazione dello sfruttamento. Questo, ovviamente, riguarda impianti di dimensioni medio-grandi, è però possibile produrre energia elettrica per usi domestici o limitati sfruttando piccoli dislivelli di quota nei fiumi e nei torrenti, con l’ausilio di microgeneratori di corrente.
PCM. Tra le strategie attive impiegabili nel settore delle costruzioni, non legate alla produzione d’energia ma piuttosto ad una sua conservazione, vale la pena di citare i cosiddetti materiali a cambiamento di fase per l’edilizia (Phase Change Material, PCM).
Si tratta di materiali accumulatori di calore latente, che sfruttando il fenomeno della transizione di fase, assorbono i flussi energetici entranti, immagazzinando un’elevata quantità d’energia e soprattutto mantenendo costante la propria temperatura.

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I PCM sono solitamente solidi a temperatura ambiente ma all’aumentare di questa ed al superamento di una determinata soglia (variabile secondo il materiale), si liquefanno accumulando calore (latente di liquefazione), che è così sottratto all’ambiente. Allo stesso modo, quando la temperatura scende, il materiale si solidifica e cede calore (latente di solidificazione).
Anche questi materiali, così come i pannelli fotovoltaici, hanno avuto i loro primi impieghi nell’industria aerospaziale (sono stati inizialmente studiati dalla NASA), ma in epoca recente sono stati riscoperti per le possibili applicazioni nell’architettura ecosostenibile, soprattutto nell’ambito del risparmio energetico.
Attualmente è lecito ritenere che essi siano più in un ambito di sperimentazione che di reale applicazione, anche se si sono ottenuti risultati positivi nel loro impiego nell’ambito delle costruzioni stratificate a secco. In questo tipo d’applicazione sono stati creati speciali pannelli per contropareti abbinando i PCM a lastre di cartongesso o legno, oppure abbinando i materiali a lastre per pavimentazioni flottanti.
Sperimentazioni importanti sono in corso per la realizzazione di sistemi di facciata vetrati o con altri materiali trasparenti. L’impiego dei PCM è previsto anche quali isolanti termici, oppure all’interno d’impianti di riscaldamento e di raffrescamento passivo, in collettori solari e scambiatori di calore.
Tali materiali termoregolanti (detti anche accumulatori di calore intelligenti) rappresentano una soluzione tecnologica innovativa nella progettazione d’edifici, perché sono un interessante sistema per smussare le fluttuazioni giornaliere della temperatura ambiente attraverso la riduzione dei picchi di temperatura interna, andando quindi a migliorare le prestazioni degli involucri in termini di sfasamento “d” e di fattore d’attenuazione “fa”; essi pertanto, risultano in grado di contribuire al contenimento dei consumi energetici necessari alla climatizzazione degli ambienti.
I requisiti termodinamici richiesti ai PCM impiegati in edilizia sono:
– punto di fusione compreso in un particolare intervallo di temperature prossimo alla temperatura di comfort;
– elevato calore latente di fusione per unità di massa;
– elevata densità;
– elevato calore specifico;
– congruenza di fusione;
– insensibilità al cambiamento di densità nelle diversi fasi e a diversa temperatura.
I requisiti chimici richiesti ai PCM impiegati in edilizia sono:
– stabilità chimica;
– non decomposizione chimica del prodotto durante il proprio ciclo di vita utile;
– non corrosività rispetto ai materiali da costruzione;
– non tossicità;
– non infiammabilità e/o esplosività.
I requisiti economici richiesti ai PCM impiegati in edilizia sono invece:
– larga disponibilità di materiale;
– costi del materiale contenuti.
Attualmente i PCM più sperimentati in edilizia, rispondenti a tali caratteristiche, sono di natura organica (paraffine e acidi grassi) e inorganica (sali idrati).
I sistemi di contenimento utilizzati sono il macro e micro incapsulamento e l’immersione in matrici porose.
Le attuali fasi di ricerca riguardano soprattutto la risoluzione di alcuni problemi inerenti la stabilità nel ciclo di vita dei PCM, infatti si è osservato un decadimento di tale requisito dopo un certo numero di cicli di passaggio di fase solido/liquido e viceversa (7300 cicli pari a circa 20 anni). Inoltre spesso si è verificato che la capacità termica di alcuni sali idrati tende a diminuire rapidamente dopo soli 40 cicli.

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